di Giuseppe Di Lello
“La vicenda umana e giudiziaria di Falcone, quella che più conta e che può interessare, inizia la mattina del 29 luglio 1983, quando il consigliere istruttore Rocco Chinnici viene ucciso da un’autobomba”.
Con queste parole Giuseppe Di Lello ci guida nella memoria di Giovanni Falcone e del suo innovativo metodo di lavoro. Lo fa partendo dall’assassinio di Rocco Chinnici, il primo che iniziò un rinnovamento nell’azione di contrasto alla mafia. Sotto la sua direzione venne, infatti, abbandonato il vecchio metodo basato sull’analisi di statistiche per focalizzare invece l’attenzione sui molti procedimenti penali in corso. Chinnici ebbe chiara l’importanza di preparazione e motivazione nella conduzione dei processi. Alla sua tragica morte fu nominato dal CSM, quale suo successore, Antonino Caponnetto, fino a quel momento in forze presso la procura di Firenze. Caponnetto diede al cambio di passo una forte accelerazione: molti processi furono unificati per essere poi delegati a un pool di Magistrati. Il primo pool era composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e dallo stesso Di Lello; ai quali si sarebbero poi aggiunti altri grandi Giudici.
Falcone era di fatto, anche se non poteva esserlo di diritto, il capo indiscusso del pool, per la capacità che gli riconoscevamo e senza nessuna riserva mentale.
La sua professionalità e le sue capacità erano riconosciute senza riserve da tutti i membri. Inoltre, la sua visione innovativa della mafia, considerata come un’associazione unitaria rigidamente strutturata con sede a Palermo, divenne il primo caposaldo delle indagini. La competenza per giurisdizione spettava dunque al capoluogo siciliano al quale erano riconducibili tutti i fatti criminosi di Cosa Nostra.
Il lavoro svolto fu immane, gestendo un numero impressionante di imputati (il Maxiprocesso ne contò ben quattrocento), viaggiando spesso anche all’estero, analizzando intercettazioni telefoniche, prenotazioni alberghiere, biglietti aerei, società, imprese e movimentazioni bancarie fino ad allora trascurate.
Si operava con grande serietà, questo era il fulcro del metodo Falcone. Niente superficialità nelle indagini ma una puntuale verifica di tutto ciò che poteva essere rilevante. Niente missive burocratiche, deleghe solo alla nostra polizia giudiziaria e poi contatti con le polizie e gli uffici giudiziari in Italia e all’estero.
Il fulcro del metodo Falcone risiedeva proprio nella grande serietà e meticolosità delle indagini. A quella enorme competenza, si aggiunse la regola dell’assoluto riserbo sulle inchieste così da non permettere ai mafiosi di insospettirsi e prendere provvedimenti. Di Lello non dimentica l’interrogatorio del pentito alla base dell’istruttoria del Maxiprocesso, Tommaso Buscetta, che venne interrogato per due mesi nella Questura di Roma nel massimo riserbo. Questi furono gli ingredienti che sancirono il successo del Maxiprocesso scatenando le ire della Cupola e di Totò Riina.
Nonostante gli indiscussi meriti Falcone venne ostacolato dai cosiddetti “amici”, che intralciarono il suo operato rendendo difficile il suo compito. Ma Falcone non si scoraggiò e da uomo instancabile proseguì il suo lavoro ricoprendo la carica di direttore generale degli affari penali presso il Ministero di Giustizia salvando il Maxiprocesso e dando a Cosa Nostra il duro colpo che sancì la sua condanna a morte.
Da quel lontano 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, è nato un forte dibattito sulle cause e sui reali mandanti. Si è discusso a lungo sui possibili attori esterni alla mafia ma senza mai trovare prove e i teoremi senza riscontri sono utilizzabili solo per le polemiche e Di Lello ne è ben consapevole quando afferma che la mafia: di ragioni autonome per uccidere Falcone ne aveva in abbondanza.
Anche le dicerie sull’isolamento dei suoi ultimi anni di vita vengono scacciate con forza. Di Lello ci regala un giudizio cristallino sull’operato di Falcone, attribuendogli tutti i meriti dovuti senza trascurare il suo grande lascito:
Oggi, grazie anche all’esempio del suo metodo, ci sono in Italia centinaia di processi contro le organizzazioni criminali, proprio perché ha fatto cadere l’alibi di una mafia imprendibile e invincibile. Questo è il più grande contributo che poteva dare sul piano giudiziario e lo ha dato con il sacrificio della vita, consapevole com’era che la mafia gliel’avrebbe fatta pagare.
( sintesi di Alberto Clementi)