Lo si vede dal fatto che nessuno – a fronte delle inchieste Milano e Calabria – si è azzardato a parlare di accuse “ad orologeria”. Eppure siamo alla vigilia di elezioni importantissime anche per il contraccolpo che imprimeranno sul governo nazionale. Persino lo spavaldo Salvini si è ben guardato dal riesumare le “toghe rosse” o dal rivolgere loro il solito arrogante invito a farsi eleggere, ammutolito dalla scossa di corruzione del settimo grado della scala tangentopoli.
La botta di Milano – con il blasfemo riferimento alla “mensa dei poveri” – ha fatto capire che la magistratura da sola non può farcela a salvare la credibilità della classe politica, infettata dal malaffare da un capo all’altro del Paese, se i partiti non si dotano di filtri all’ingresso per i corrotti. E non per statuto, ma con una legge nazionale.
Non sarà un cambiamento semplice, ma avverrà se noi cittadini faremo sentire – con sempre più forza – il nostro rigetto verso chi ruba soldi pubblici.
Perché la vergogna dei potenti è il freno che si attiva solo con la percezione della disapprovazione pubblica.