Del Grande Torino, della sua bellezza e della sua tragedia è stato già detto e scritto quasi tutto. Il maltempo su Torino quel dannato pomeriggio di maggio, la visibilità bassa per non dire nulla, la trasferta a Lisbona, in un Portogallo martoriato dal regime di Salazar ma per sua fortuna non dalle conseguenze di una guerra dalla quale si era sapientemente tenuto al riparo, lo schianto sul terrapieno della basilica di Superga, le lacrime, i funerali e una città invasa da una folla smisurata, sofferente come forse nessun altra ha mai più saputo essere.
Ciò su cui non ci si è interrogati abbastanza, al di la dei record, del mito, della leggenda, dei cinque scudetti consecutivi e delle imprese di capitan Valentino, di cui quest’anno incorre anche il centesimo anniversario della nascita, è cosa rappresentasse quello squadrone per un’Italia che usciva distrutta dal secondo conflitto mondiale e aveva un disperato bisogno di pace e normalità.
Prendete il ferroviere Oreste Bolmida, il quale trasformò il suo strumento di lavoro, la tromba con cui faceva partire i treni alla stazione di Porta Nuova, nel formidabile innesco del quarto d’ora granata: il momento mitico in cui le cose che devono succedere succedono davvero, quando capitan Valentino si rimboccava le maniche e fioccavano gol come se piovesse, in un Filadelfia gremito in ogni ordine riposti, carico di gloria, di speranza, di futuro.
Perché questo erano quei ragazzi: il sogno ingenuo di un’Italia a brandelli, la favola pulita di un paese devastato dalla miseria e dalla guerra, con le macerie ancora fumanti sullo sfondo, una contrapposizione politica feroce, una Guerra fredda incipiente e un’emigrazione da Nord a Sud che generava malumori e tensioni paragonabili, in parte, a quelli che generano oggi le nuove migrazioni. Eppure, l’operaio che andava a tifare Toro, che si ritrovava nella meraviglia di quei campioni, che riconosceva in essi un’opportunità di riscatto, che li sentiva come una parte di sé e della città, campioni umani, non celebrità da idolatrare, quella Torino intensa, passionale, acuta, laboriosa, innervata dal milieu culturale della casa editrice Einaudi e capace di far coesistere la poesia e la prosa, la fatica e il genio, la spensieratezza e il sudore, quella Torino operaia e aristocratica al tempo stesso, che purtroppo non esiste più, è stata la culla e la tomba di una compagine di invincibili, straordinaria non solo per i trionfi ma per l’umiltà che seppe mantenere nel corso della propria epopea.
E aveva ragione Indro Montanelli quando sostenne che in fondo il Grande Torino non fosse morto ma fosse andato in trasferta poiché sarebbe rimasto per sempre, ovunque nel mondo, come icona dello sport, simbolo e modello da imitare. Una preghiera laica che iniziava con Bacigalupo, Ballarin, Maroso e proseguiva con Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ossola. Un colosso invincibile eppure colmo di fragilità, un comune sentire, una sorta di patria morale dai contorni universali, un primo, magnifico esempio di globalizzazione sportiva, prima della nascita della Coppa dei Campioni e delle grandi competizioni internazionali che hanno universalizzato un linguaggio di per sé in grado di valicare ogni confine e barriera.
E poi il destino, tragico e tremendo, che volle che il pilota dell’aereo che si schiantò a Superga si chiamasse Meroni, proprio come il fuoriclasse che negli anni Sessanta seppe far vivere in Italia il mito di Best e della cultura beat, salvo poi essere investito, una domenica d’ottobre, da un suo giovanissimo tifoso che tanti anni dopo sarebbe diventato, guarda i casi della vita, il presidente della squadra granata.
E fra i giornalisti morti nell’incidente c’era anche un uomo di quarant’anni: Renato Tosatti, finalmente felice dopo tante traversie. Ebbene, furono proprio la morte del padre e le difficoltà economiche della sua famiglia a indurre un ragazzo di nome Giorgio, che nella vita avrebbe voluto fare tutt’altro, a raccoglierne l’eredità, tornando a far crepitare i tasti di una macchina da scrivere fino a diventare uno dei più importanti giornalisti sportivi d’Italia, dotato di una penna sopraffina e di una cultura complessiva da fare spavento.
C’è un destino che lega tutte queste storie tinte di granata: un destino beffardo, cinico, maledetto. Il tremendismo, per l’appunto, suprema invenzione di un altro mito di nome Gigi Radice, l’allenatore dell’ultimo scudetto (anno 1976), strappato alla Juve in un derby lungo quanto un campionato che si replicò l’anno successivo e vide, stavolta, il successo dei bianconeri, capaci di conquistare 51 punti su 60 pur perdendo il derby d’andata contro dei favolosi avversari.
Oggi di Novo, di Pianelli, di quei presidenti scolpiti nella quercia è rimasto poco o nulla, in questo calcio dai profitti milionari che consuma persino le tragedie e non conosce più il senso dell’epica.
Per questo quella squadra, quella leggenda, quella fantastica ossessione che accomunava tutti, anche chi viveva a centinaia di chilometri di distanza, vive ancora dentro di noi e ci scava nel profondo. Ci ricorda, infatti, che esiste anche un’altra idea di mondo e che se siamo ancora, nonostante tutto, un Paese di primo piano nel mondo lo dobbiamo soprattutto allo spirito di allora, di chi ci credette sfidando l’impossibile, di chi ebbe la forza di ricominciare, di un ferroviere che suonava la tromba, di un direttore tecnico, Egri Erbstein, sfuggito alla persecuzione nazista in quanto ebreo, di un campione, Mazzola, che era nato nella famiglia più povera di Cassano d’Adda e di un’Italia sostanzialmente migliore, in cui persino l’odio, sportivo e non, era vissuto con simpatia, quasi con dolcezza, forse perché di lacrime se ne erano piante sin troppe e si avvertiva davvero il bisogno di ricominciare.
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