Al Teatro Argentina di Roma,Silvio Orlando, su testo di Lucia Calamaro, protagonista uno spettacolo intrigante e meritato successo
Dispiegata ed ‘espletata’ sino alle compiute conseguenze, la drammaturgia di Lucia Calamaro (fra le autrici emergenti, con merito, della scena italiana) avvolge e coinvolge -in questa sorta di interludio di anime pacatamente alienate, che ebbe la sua anteprima al Festival di Spoleto – tutto ciò che può diramare il pentagramma della “solitudine anziana” – di cui l’autrice si fa anche regista, suffragata dalla sghemba, amabilmente confusionale interpretazione (tic e mottetti, sarcastiche sfumature) del sapido Silvio Orlando, attorniato (come annotammo all’anteprima d’Umbria) da ottimi, riconfermati comprimari quali Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini.
Sul filo di un lutto mai elaborato (la precoce vedovanza) e dei figli che “non potranno né dovranno” mai colmare alcun vuoto (non è loro compito), la Calamaro imbastisce una sorta di commedia “estroversa” ma intimista, una specie di polveriera sapida e dialettica , a tratti avvincente e ‘struggentemente’ ironica (con eco e richiami a ben più ‘grandi’ misantropie letterarie, da Svevo a Kafka, da Bernhard a Gonciarov), talvolta cedendo ad una sorta di logorroica verbosità, cui si attagliano i micro-monologhi ‘offerti’ alle indubbie virtù di Orlando- al suo estro così brusco, insofferente, e allo stesso tempo ‘sofisticato’ : per digressioni, sfumature, inanità di piccoli gesti indifesi.
Recitando frontalmente al pubblico, come se si trattasse di imbarazzata, pudica confessione, il protagonista è come “costretto” ad una alla staticità scenica che, per effetto collaterale, imprime forzati rallentamenti alle cadenze del commedia e all’interloquire di Orlano con i familiari, giunti al suo eremo di campagna per festeggiarne il compleanno, crudele e coincidente con l’anniversario della morte della moglie.
La recitazione dell’ensemble, tendenzialmente naturalistica e sdrammatizzante, si esprime (ma non è un difetto) anche ricorrendo ad ombreggiature e sfumature dialettali: assegnando ad ogni caratterizzazione (saporita quella di Roberto Nobile, nel ruolo del fratello) una alternata emulsione di schiettezza e stereotipi, con il ricorso a battute volutamente semiserie e non poche ‘soste’ di ripresa e respiro, ravvivate dalle istanze contestative del figlio maschio e le velleità ‘versificatrici’ della figlia poetessa, “ispirata notte e giorno da Caproni e Penna”: elevati a numi tutelari (ma impropri) di condizione esistenziale ben più prosaica e ove nulla sembra aspirare alle “più alte dimore” della sublimazione (mediante o nonostante la ‘conoscenza del dolore’).
Sinchè il branco dei congiunti “che non vorrebbe lasciar solo l’anziano padre” (mentre egli constata che “essere socievoli è un’ingrata fatica”) non prenderà congedo. Concedendo ad Orlando il beneficio del dubbio. In visita solinga e cimiteriale alla dipartita consorte, nella “raggiante tenerezza”che succede all’ isolamento forzoso, egli stesso non esclude di aver sognato, innocuamente delirato. In quel consesso di parenti fastidiosi (ricordate certe pièce anni sessanta del maestro Neil Simon?) che potrebbero anche disertare da anni (o non essere mai esistiti). E su velari di mestizia e disinganno che poco concedono alla fasulla consolazione della ‘beata solitudo’…
L’IMBRUNIRE
Testo e regia di Lucia Calamaro
con Silvio Orlando
e con (in o. a.) Riccardo Goretti, Roberto Nobile
Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene: Roberto Crea
costumi: Ornella e Marina Campanale
luci: Umile Vainieri Teatro Argentina di Roma. In ripresa da ottobre