“What you gonna do when the world’s on fire?” (“Che fare quando il mondo è in fiamme”) di Roberto Minervini, già in concorso alla 75ma Mostra del Cinema di Venezia, nel nitore abbagliante del bianco e nero possiede il taglio del docufilm e la passione abbacinante di una pellicola neorealista. Sono microstorie dalle periferie di New Orleans (ma potrebbero essere le periferie di tanta e di troppa America) sullo sfondo di un Mardi Gras ancora da venire, anzi atteso con la trepidazione di chi allestisce i costumi per il Carnevale che è la festa dell’identità e della recriminazione e su cui si apre il film.
Sono storie che esplorano il sottoproletariato nero e meticcio sullo sfondo della irrisolta questione razziale afroamericana, della violenza metropolitana, dell’impossibilità dell’integrazione e del tentativo di uscire dalla trappola dei bianchi “nel più grande paese del mondo”. Un paese di cui le comunità nere vanno forse fiere ma nel quale sono ancora ostaggio della cultura e dei pregiudizi dei bianchi e dell’obra sinistra e costante del KKK. Sono storie di individui – Titus e il fratello Ronaldo, Judy che gestisce un bar, gli attivisti delle nuove Black Panthers – costretti a vivere ogni giorno “come se fosse l’ultimo”, gente comune, genti “meccaniche” avrebbe magari detto Manzoni: nel film di Minervini però non ci sono provvidenze che intervengono, né la sofferenza e il male possono trovare giustificazione se non nell’agire degli uomini.
Le vite dei protagonisti scorrono parallele: i due bimbi a zonzo per i quartieri, nelle vecchie zone industriali dismesse, lungo il fiume, a lottare con la scuola o con la lontananza dei genitori; la donna a tentare di ricostruire una vita segnata dalle violenze domestiche e dalla droga; i Black Panherts a sottolineare – per le strade, casa per casa, davanti al palazzo del governo cittadino – che non ci potrà mai essere giustizia senza pace; già: perchè il problema è che i bianchi “non hanno bisogno di dire potere ai bianchi”. Sono storie insomma che ruotano intorno al Maafa (termine swahili), ovvero “l’olocausto africano” che i neri (e le minoranze) subiscono da quattro secoli. Un olocausto che si esprime anche nelle forme sottili dell’immobilità sociale, dell’espropriazione dell’identità, del sapere – “ i bianchi ci hanno educato ad essere solo schiavi” – e dei luoghi specialmente, attraverso la “gentrizzazione”, ovvero la spinta irreversibile che queste comunità subiscono verso la periferia ulteriore, una forza centrifuga condotta e gestita dalla popolazione più facoltosa ai danni delle aree urbane popolari tradizionalmente occupate dalla classe operaia.
Nel precedente “Louisiana – The Other Side” (2015) Minervini affrontava le vicende di un personaggio tossicomane e criminale per sua stessa ammissione. Se in quella pellicola il disfacimento morale e psicologico contrastava con l’estetica della Natura – il fiume appunto e i suoi paesaggi aperti e luminosi – “What you gonna do when the world’s on fire?” è un’opera più verista. Minervini mostra quella realtà, non il modo in cui lui la vede. Evita quindi il luogo comune del film larmoyant o engagé, sceglie il punto di vista dei suoi protagonisti, “regredisce” al loro livello, al loro parlato, al loro modo di trascorrere il tempo, di scherzare e di toccarsi, si sofferma sui loro dialoghi, su tutto quello che hanno da raccontarsi tra lacrime, sorrisi e recriminazioni, senza interferenze “fiction”.
I tempi, così, sono dilatati, cioè sono ferocemente reali: l’indolenza di un lungo giro in bicicletta con due ragazzi; i primi piani della vecchia madre della protagonista sulle cui rughe sembra quasi insediarsi l’intero film; le riunioni del collettivo delle nuove Black Panthers. Le immagini sono prive di commento musicale, nessuna colonna sonora può esprimere il travaglio di quelle esistenze né può ammorbidirle. E non è nemmeno necessario esibire “cinematograficamente” la violenza che è sottesa a quelle vite e a quelle storie: basterebbe soltanto, nel finale, la sequenza del brutale arresto di alcuni attivisti prima che il Carnevale, i suoi ritmi irresistibili ma ancora lontani, l’attesa elettrizzante della sfilata e la sua momentanea eversione, risucchi ogni cosa nella notte umida, perché come cantava Gil Scott-Heron, il poeta afroamericano antesignano dei rappers, “the revolution will be no re-run brothers. The revolution will be live…”