di Carla Nassisi
C’è una storia che ha premesse da romanzo criminale, ma che termina nello squallore sordo della realtà. Una storia senza morale alcuna, come molte altre storie che appartengono alla realtà e non alla fantasia di scrittori o registi. Una storia che non ha nulla di catartico. È la storia di una bambina, la storia di una madre.
È la storia di un pentito e di un uomo senza rimorsi. È una storia qualsiasi, dopotutto, una schifosissima storia di mafia. Non la mafia dell’Orgoglio dei Prizzi, del Padrino o di Gomorra. Non quella pittoresca che si agghinda nei castelli del defunto Boss delle Cerimonie. Non è di certo una storia di “uomini d’onore”, di quelli che sai, non toccano donne e bambini, che “quando in carcere ci va un pedofilo, sai, che gli fanno? Loro quelli che fanno del male ai bambini non li sopportano proprio”.
Nel marzo del 1991, Paola Rizzello, ventisettenne, e sua figlia Angelica, di soli due anni, vengono assassinate brutalmente nelle campagne salentine, nei pressi del comune di Matino. I due sicari sono Biagio Toma e Luigi De Matteis; quest’ultimo, il “pentito”, svela i la vicenda agli inquirenti, fino alla confessione dettagliata, 17 anni dopo, dell’omicidio della bambina. Un’azione tanto meschina quanto disarmante nella sua insensata brutalità. Forse la causa dei fantasmi che tormentano lo stesso De Matteis, che accusa Toma dell’esecuzione materiale del delitto. Paola Rizzello conosceva Toma e De Matteis, e meglio di loro conosceva i mandanti, Anna De Matteis e Luigi Giannelli. La sua è una parabola esistenziale sul filo del rasoio: ha contatti molto stretti con i mafiosi della SCU, problemi di tossicodipendenza; è amante del boss Giannelli prima, e del suo braccio destro Donato Mercuri poi. Anna detta “Morte”, moglie di Giannelli, la odia, tanto da picchiarla in piena luce, davanti a tutti, al mercato; il boss inizia a temere che conosca troppo bene le attività della cosca. Matura tra le mura del carcere in cui è costretto Giannelli la decisione di farla fuori.
La sera del 20 marzo 1991, Toma e De Matteis tendono una trappola alla giovane. La inducono a seguirli in un casolare sperduto con la promessa di farle provare una nuova partita di droga. Paola ha con sé la sua bambina, di soli due anni, ma sceglie di fidarsi. È spavalda, Paola; quando De Matteis le punta il fucile contro, lei scosta la canna, quasi ridendo. “Non mi fai paura”. Un colpo all’addome ferisce la ragazza, che cade insieme alla bambina, ferita al piede. Forse Paola ha paura, adesso, o forse il secondo colpo, tra il petto e il collo, è troppo rapido.
Si chiuderebbe forse così l’“ordinaria” esecuzione mafiosa di Paola Rizzello, in una serie TV. Angelica piange da sola per un’ora e mezza, e forse qualcuno potrebbe udire quel pianto, nel silenzio surreale della campagna salentina. Ma la realtà è ben più truce. I due assassini fanno ritorno. Allora, l’insensato. Toma decide che non può sprecare nemmeno un colpo: così afferra la piccola e la sbatte al muro come una bambola di pezza, “quattro-cinque” volte, finché non smette di respirare. Il resto è un niente: un sacchetto di iuta sepolto sotto un albero, nascosto per oltre 17 anni e infine rinvenuto grazie alle indicazioni del pentito De Matteis. «Nnu ‘sta la facia chiui iou cu tegnu ‘nnu segreto del genere dentro» (“non ne posso più di tenere dentro un segreto del genere”), dice quest’ultimo agli inquirenti, durante la sua prima confessione del delitto.
Cos’è un bambino per un mafioso? Per Biagio Toma, Angelica era una cosa in un sacchetto. Cos’è una donna? Per Anna De Matteis e Luigi Giannelli, probabilmente, Paola Rizzello era una donnetta di cui si poteva fare a meno per un capriccio, per gelosia, con la scusa che “sapeva troppo”. Tutto il resto non è altro che una finzione.
L’invenzione di uno scrittore, di un regista, di qualche illuso a cui piace pensare la mafia come un impero del male popolato da conturbanti personaggi a tutto tondo, tenebrosi ma depositari di una morale interiore, cavalieri oscuri e criminali-gentiluomini. Perché il male è banale, come disse Hanna Arendt: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”.