Oggi, lunedì 20 maggio 2019, è l’ottavo anniversario della scomparsa di Roberto Morrione, presidente e direttore di Libera Informazione fino a quel 2011, in cui ci ha lasciati.
Roberto aveva la capacità di interpretare eventi e vicende con una lucidità davvero unica. Se rileggiamo oggi quanto scriveva anni fa, rimaniamo sorpresi dal guizzo sapido che faceva capolino da ogni sua parola, dal suo periodare e argomentare con dovizia di particolari, con cui portava chi lo ascoltava o lo leggeva a ragionare insieme a lui.
Quando scompaiono giornalisti così, quando soprattutto se ne vanno uomini così, rimaniamo tutti più soli. Lo avevamo capito subito, ma ogni anno che passa il dolore per una così grande perdita non si affievolisce, anzi.
Per ricordarlo, quest’anno pubblichiamo un suo editoriale di dieci anni fa, nel quale riprendeva il richiamo dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a non sottovalutare il fenomeno mafioso, a pochi giorni dell’anniversario della strage di Capaci.
Quando lo leggerete, vi troverete passaggi di una sconcertante attualità: dal radicamento delle mafie al nord e nell’economia all’ennesimo demagogico decreto sicurezza, dal respingimento delle “barche di disperati”, messo in atto dal ministro dell’Interno Maroni alle proteste della CEI per le strumentalizzazioni della politica. Insomma, una sconcertante attualità per un Paese che sembra non voler cambiare mai, anche quando tutto si presenta come nuovo, secondo la ben nota logica di gattopardesca memoria.
Nel leggere quei fatti, Roberto non lesinava critiche ai potenti del Palazzo, ma in conclusione richiamava la propria responsabilità: quella di un giornalismo al servizio della democrazia. E questo rimane il più grande lascito del nostro Direttore.
L’editoriale di Roberto Morrione
“Esiste il rischio che le organizzazioni di stampo mafioso possano approfittare dell’attuale crisi per acquisire il controllo di aziende in difficoltà, con un’invasiva presenza in tutte le regioni del Paese”.
L’allarme è stato lanciato da Giorgio Napolitano, nel corso della festa della polizia. Un allarme che è insieme un richiamo, il più autorevole finora giunto dalle massime autorità della Repubblica, contro la colpevole sottovalutazione di un fenomeno che si è finora diffuso nel silenzio di chi a livello politico pur rappresenta gli interessi nazionali e nell’indifferenza dell’opinione pubblica. Perché in realtà le mafie sono già fortemente radicate in tutti i territori, fondendosi attraverso il riciclaggio in ogni ramo dell’economia e della finanza cosiddetta “legale” e oltretutto dilagando in Europa.
Il richiamo del capo dello Stato è stato subito raccolto dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, dal Presidente di Assoindustria Sicilia, Lo Bello e dai magistrati impegnati in prima linea, che nel rapporto annuale della DNA hanno già documentato quanto sia grande il rischio di un’ulteriore espansione degli interessi criminali di fronte alla devastante crisi economica. “Tutto autorizza a ritenere – scrive nella relazione il PM Alberto Cisterna – che l’attuale crisi finanziaria ed economica, destinata ad aggravarsi nei prossimi mesi, possa rappresentare una ghiotta occasione per l’arricchimento delle mafie”. La previsione si fonda sulle crescenti difficoltà in cui versano tante imprese, sulla pressoché illimitata disponibilità di denaro liquido frutto dei traffici di droga, che non conoscono ostacoli anche nei periodi di recessione e insieme sulla contestuale difficoltà delle banche a concedere mutui e prestiti a imprese e a privati.
Ed è nelle fasi di emergenza che lo Stato interviene con massicci sostegni pubblici, che alimentano conseguentemente gli appetiti mafiosi, favoriti – sono parole della relazione della DNA – “nel sistema di potere economico e politico”. Ciò significa oltre tutto per molti commercianti e piccoli o medi imprenditori l’allargarsi parallelo della porta d’ingresso dell’usura, che diviene presto per chi vi entra una infernale via senza uscita, se non a costo di subire prima o poi il ricatto mafioso fino alla cessione obbligata dell’impresa o del negozio.
Un richiamo, dunque, di straordinaria portata, ma che non ha avuto la eco e le risposte che meritava. Dopo la striminzita cronaca di un giorno, il sistema dei media ha taciuto o non ha approfondito l’analisi,con pochissime eccezioni, immerso piuttosto nella infinita “querelle”, pur densa di significati, fra i coniugi Berlusconi. Né vi è stata reazione da parte del premier e del suo governo, tesi invece attraverso il disegno di legge sulla sicurezza a rassicurare un’opinione pubblica spaventata per la precarietà del presente e l’incertezza del futuro, cercandone il consenso elettorale attraverso i feticci del blocco dell’immigrazione “clandestina”, del consolidarsi di misure repressive nei confronti di chi, spinto dalla fame e dalle persecuzioni, arriva in Italia dopo mille peripezie e a rischio di perdere la vita in mare, della grottesca regolarizzazione delle ronde cittadine. Un obiettivo di immagine e di populismo cieco, ben concentrato nella definizione berlusconiana di una Italia che non deve diventare “multietnica”. Una definizione profondamente errata che contraddice insieme la realtà già consolidata, come la convenienza economica e sociale della crescita del Paese, ponendosi fuori del contesto globale ed europeo dei paesi sviluppati, fino a incoraggiare moralmente l’estendersi del razzismo, della xenofobia, dell’intolleranza verso il “diverso”.
E’ doppiamente ripugnante e inaccettabile che le barche dei disperati siano costrette dal ministro Maroni a respingere verso disumane condizioni di vita e in molti casi verso torture e morte centinaia di uomini, donne, bambini, che sperano solo in un asilo e in un futuro vivibile, mentre signori in colletto bianco si impadroniscono indisturbati dei gangli vitali dello sviluppo e della democrazia del Paese nell’indifferenza generale, ma con non poche complicità proprio da parte del sistema di potere che si dice geloso custode della sicurezza nazionale.
Fino a suscitare anche le proteste della Conferenza Episcopale, forse sensibile alla vistosa contraddizione di un governo italiano che si dice vicino all’insegnamento e ai dettami della Chiesa, mentre infrange ogni giorno basilari precetti di umanità e di solidarietà cristiana, proprio nel momento in cui il Papa porta in Medio Oriente e nel mondo islamico quel concetto di “multietnicità” e di dialogo invece negato dal demiurgo italiano…
E fra gli enormi problemi sollevati dal richiamo del capo dello Stato, balza in primo piano il rischio incombente delle infiltrazioni mafiose nella ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo. Se valutiamo che il fatturato complessivo delle mafie – secondo prudenziali calcoli Eurispes – si aggira in non meno di 130 miliardi di euro e che ammontano ad almeno 44 miliardi di euro i fatturati della sola ‘ndrangheta calabrese, la ricostruzione dell’aquilano terremotato, con un decreto dalle cifre ancora assurdamente variabili, ma che non supera gli 8,5 miliardi di euro, risulta pericolosamente esposta, come un boccone prelibato, piccolo quanto appetibile. Sono soprattutto i subappalti, previsti dal decreto fino al 50 % della categoria in questione, in deroga alla normativa generale degli appalti pubblici che prevede un tetto massimo del 30%, a rappresentare il campo più esposto, considerando che il movimento terra e il mattone costituiscono uno dei terreni battuti dovunque da camorra e ‘ndrangheta.
Il controllo da parte del pool di magistrati costituito dalla DNA di Grasso, ma ancor più la vigilanza dei sindaci e delle amministrazioni, a loro volta tallonate dai comitati e dalle associazioni a cui cominciano ad appoggiarsi le popolazioni colpite, sarà decisivo. Purchè il governo mantenga gli impegni così vistosamente presi e non si limiti al teatrino fra le rovine dell’Aquila al quale hanno finora dato vita il premier e la successiva processione di potenti, distraendo magari l’opinione pubblica con l’improbabile impresa organizzativa del G 8.
Noi, per quello che possiamo fare, staremo molto attenti, ma ciascuno, per la sua parte di responsabilità, non dimentichi il monito del Presidente della Repubblica.