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Niki Lauda. Inseguendo la velocità

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Il tre volte campione del mondo Niki Lauda ha smesso di correre. Dopo 70 anni di sfide al centesimo di secondo. E’ stato un uomo e un atleta di doti non comuni, coraggioso e leale.
Una vita intera con il motore al massimo, quella del grande campione della Formula 1. Sulle auto cosi come a bordo dei suoi aerei. ”Ma per riuscirci e restare vivi è necessario che testa e piedi non perdano neanche un fruscio di quel rombo. E le mani stringano sempre tra le dita la traiettoria del bolide”, mi disse una sera di molti decenni fa, quando era ancora all’alba della sua fama.Lo ricordiamo anche e soprattutto per certe sue qualità del carattere, tanto schivo quanto equilibrato. Per lui la velocità era tecnica matematica e il coraggio un’avventura intellettuale prima che una sfida fisica. La  determinazione a primeggiare soddisfaceva un bisogno intimo, più che mirare a prevalere sugli altri. E -paradossalmente- il mito della velocità in quanto tale non gli apparteneva. In pista e nella vita quotidiana, Lauda era un ingegnere, non un corsaro.

INSEGUENDO LA VELOCITA’

Interlagos, Brasile. gennaio 1975.

La velocità che ha ubriacato il Novecento, dal futurismo alla blitz-krieg, per portarlo in derapage ai massacri di due guerre mondiali, adesso è stata presa a servizio della tecno-civiltà e celebra in pace se stessa. Oggi, la festa è qui: nell’ autodromo divenuto un tempio in cui la tecnica compie i propri riti di massa e sospende fino a data da destinarsi i fallimenti dell’umanitarismo con un geometrico beau geste. Qui manca il tempo per ragionare sul dualismo uomo-macchina e le sue contraddizioni. La festa ha bisogno della simbiosi e la vuole subito. Retti da un equilibrio matematicamente calcolato, i bolidi in pista vorticano sul filo dei 300 all’ora. Basta manovrare bene il minuscolo volante dotato dei comandi necessari a dirigere una metafora del mondo. Corro ergo sum. A ciò provvedono i piloti, che come molti sacerdoti ne sanno più dei fedeli circa i limiti del proprio ufficio.

Incapsulato nel minuscolo abitacolo della rilucente monoposto, l’uomo iper-moderno rivestito del mito supremo porta al massimo dei decibels il rombo della propria volontà di potenza. E’ il nuovo uomo-proiettile del circo globale, il missile terra-terra a guida manuale, dunque ancora padrone del suo destino: tutto un simbolo. Perciò il gigante dell’America del Sud, questo Brasile sempre all’ inseguimento di un’industrializzazione accelerata, ha voluto a tutti i costi (letteralmente: certe inclusioni si pagano salate) che la pista alla periferia della capitale economica del paese, Sao Paulo, venisse inclusa nel circuito della Formula Uno. Oggi è il suo Gran Premio e gli appassionati sono accampati a decine di migliaia sulle tribune e lungo il tracciato per assistere al nuovo prodigio.

Il fattore umano eccita ulteriormente le attese. Per rendersene conto basta leggere gli striscioni; osservare da vicino l’ondeggiare delle bandiere, ascoltando le grida che l’ accompagnano: Emerson, Emerson. . . E’ il nome più acclamato, il difensore del prestigio brasiliano, cervello e coraggio del nuovo mondo emergente nella disfida tecnologica con la vecchia Europa colonizzatrice, il campione dei quartieri alti così come il giocoliere Pelè è il santo delle favelas. L’eroe del progresso verdeamarelo, Emerson Fittipaldi, che incarna non si sa quanto consapevolmente l’ottimismo positivista nazionale, ha ottenuto nelle prove il secondo miglior  tempo, dopo quello del francese Jarier. La sua McLaren parte in buona posizione. In effetti può vincere. Ferrari, Brabham e McLaren sono le favorite e si disputeranno i punti in palio per il mondiale appena cominciato.

Nei boxes e tra il pubblico tutti sanno però che c’è anche un’altra corsa nella corsa: tra l’ asso della guida scientifica, l’ austriaco Niki Lauda, e quello divenuto ormai il suo più accanito antagonista, l’ inglese James Hunt, spericolato acrobata delle quattro ruote e di non meno sfrenate notti di allegra baldoria. Questi su una Hesketh, il cui costruttore, amico e sponsor del pilota, spera di rallentare con un buon piazzamento se non con un trionfo l’ incipiente decadenza dell’ industria automobilistica inglese e salvare così anche la sua scuderia indebitata fino al collo. A rischiare non sono soltanto i piloti in pista.

Lauda corre su una delle due Ferrari in gara ed è altrettanto determinato a conquistare una definitiva affermazione. Sebbene giovane, è un uomo poco loquace. Concentrato sul proprio lavoro: osserva minuziosamente quello dei meccanici. La guida dell’ altra rossa è affidata al ticinese Clay Regazzoni, un pilota di gran razza ed esperienza, audace e tuttavia non amante di rischi innecessari. Sono anni in cui più di un corridore paga con la vita la brama di velocità e l’insufficiente sicurezza degli autodromi. E’ stato Clay a convincere il Vecchio, Enzo Ferrari, a contrattare Lauda per la squadra di Maranello, convinto del suo fresco e già maturo talento. E ha visto giusto, anche troppo. Il pilota austriaco sta ormai sul punto di soffiargli il posto di prima guida. Si prepara un dramma personale tra i due che sono amici per la pelle.

Nel corso delle prove, al box della Hesketh-Ford-Cosworth non mi lasciano entrare. Mi hanno visto in quello della Ferrari, già sanno che scrivo per La Stampa, anch’ essa parte dell’universo Fiat, e manca poco che mi considerino una spia. E’ con fair-play che mi sbattono la porta in faccia. Sono più ospitali alla McLaren, Jochen Mass ha appena evitato per un pelo di fare la slavina su una pozzanghera d’ olio combustibile perduto da una macchina di servizio e sta discutendo con i meccanici. La direzione della corsa ha fermato tutti: sospese le prove. Fittipaldi ha invece accanto il fratello, Wilson, che sebbene con minor successo corre anch’egli in Formula 1, e tuttavia accetta di scambiare due parole. Dice che: il disegno d’ Interlagos, favorisce chi parte davanti, quelli che restano indietro hanno molti problemi per recuperare. Lauda e Hunt? Si, sono bravi, nao tem duvida; ma lui si sente sicuro d’ arrivare prima di loro. Non per niente li ha già superati nelle prove. Non ha visto? Io sono più veloce.

Alla Ferrari, in effetti, sono peggio che scontenti. Preoccupati per i pneumatici, troppo teneri per il caldo di queste giornate del gennaio australe, con l’asfalto che a mezzogiorno diventa un braciere, fuoco sotto la cenere che sbianca i copertoni come candeggina. Luca Montezemolo, il comandante in capo, è al telefono con la Goodyear e volano parole grosse. E’ un tipo battagliero e si fa sentire; non intende arrendersi alle ragioni degli altri. Quest’ anno vuole il titolo mondiale. Ma la faccenda dei pneumatici è davvero complicata. Rebus di microchimica: devono aderire il più possibile al terreno e pertanto essere elastici; ma anche resistere il più a lungo possibile e per questo devono essere compatti, senza però risultare rigidi. Sulla scelta si giocano decimi di secondo decisivi e chi sbaglia, paga. Non resta molto tempo per decidere.

I giochi sono presto fatti. Ecco che il corteo della tecnica si dispone sulla griglia di partenza. Freme e ondeggia davanti allo sbandieratore pronto a dare il via. E’ un uragano che definitivamente incendia l’aria già rovente quello che soffiano i tubi di scappamento nell’ istante in cui le auto si lanciano. Fanno trattenere il fiato un paio di frenetici zig-zag alle spalle dei primi che scattano come giaguari in vista della preda; gli altri sfrecciano all’ inseguimento. Dietro, a un concorrente s’è spento il motore e resta immobile come un simulacro nel deserto della pista svuotata di colpo. Nessuno guarda le colombe che fuggono impazzite di spavento verso l’azzurro del cielo paulista; gli occhi sono tutti rivolti a terra, al nastro d’ asfalto su cui si srotola la corsa: lì è la vita, lì è la verità. Senza la consistenza dell’aria i motori non potrebbero produrre la potenza che catapulta le auto, nè le colombe potrebbero volare.

Bastano la metà dei giri –tre concorrenti hanno già fatto testa-coda schizzando fuori pista-per confermare alla Ferrari i cattivi presagi sui pneumatici. Lauda non riesce a riacciuffare il plotone al comando e resta prigioniero del dubbio se fermarsi per cambiarli immediatamente o aspettare proseguendo al risparmio, per vedere come evolve la competizione. Intanto respinge un paio di attacchi di Hunt, che non riesce a sorpassarlo ma resta sulla scia. Regazzoni va meglio, fila più di tutti nelle diritture e non perde nulla sulle curve. Sembra in grado di fare punti; finchè Jochen Mass non gli s’ infila a la va o la spacca nella traiettoria interna d’una svolta a gomito. E lui che è un gentiluomo non ha la cattiveria necessaria per dargli un colpaccio sulla fiancata e sbatterlo fuori strada. Il tedesco scappa via e gli scippa così il terzo posto, podio e punti. Neppure Emerson Fittipaldi mantiene la promessa fatta a se stesso e le speranze dei suoi tifosi devono adattarsi a un secondo posto, alle spalle della vittoriosa Brabham di Carlos Pace, l’italo- brasiliano sorpresa del giorno che conquista il suo primo Gran Premio. Sventolio di bandiere, il pubblico esulta: Bra-sil, Bra-sil. . .

La corsa, l’adrenalina che condensa la concentrazione dei piloti e la commozione della folla sono lo spirito, l’essenza interiore di questa festa della velocità: l’immagine di vita in cui d’ istinto si identificano protagonisti e spettatori, proprio perchè il suo risvolto nasconde invece il volto della morte. La forza espressa dall’ abilità dei conduttori e dalla potenza dei motori infonde coraggio nel momento stesso in cui sfiora il rischio mortale. E’ l’estetica della velocità, il suo fascino, che sul momento porta via con sè tutte le nostre ansie e ci rassicura l’animo. C’è l’intimo sollievo dello scampato pericolo nello scatto con cui il vincitore stappa sul palco d’ onore la bottiglia di champagne, accompagnato dall’ urlo dei tifosi. E tutto l’effimero di quel brivido d’ onnipotenza nello spumeggiare del vino che battezza i primi arrivati, uomini nuovi in quanto salvi grazie all’ ardimento e alla fortuna, oltre che alla potenza dell’automezzo.

Per i favoriti delusi la cena del dopo-gara è il confessionale delle recriminazioni. Un copione quasi d’ obbligo per quanti si sono visti sfuggire dalle mani il vello d’oro. Al tavolo della Ferrari, Montezemolo impreca tutt’ altro che a torto contro i pneumatici e butta lì che in pista ci vuole più grinta, perchè i giudici di gara non vedono tutto quanto dovrebbero vedere. Lauda mangia e risponde alle mie domande di malavoglia. E’ scontento della gara. E ragionare sulla filosofia della velocità gli interessa poco. Sebbene arrivando quinto sia riuscito almeno a non perdere la faccia e lasciarsi dietro Hunt, che all’ incrociarlo dopo l’arrivo gli ha promesso sghignazzando provocatoriamente rinnovata battaglia al prossimo Gran Premio. Regazzoni confessa senza arroganza alcuna di non essere pentito di nulla. Sembra ridacchiare sotto gli enormi baffi ispidi quando dice di sè che si considera un buon cowboy, non un pistolero: perchè corre ma non spara. . .

P.S.

Niki Lauda con la Ferrari vince nello stesso anno il suo primo campionato del mondo.

Ma in quello seguente, 1976, la sua Ferrari prende fuoco mentre corre a Nurburgring, in Germania. Lo estraggono orribilmente ustionato sulla faccia e sul corpo. Ancor più grave è che i fumi della combustione gli hanno bruciato le vie respiratorie interne.

Nonostante ciò la sua forza di volontà è tale che non soltanto ritorna rapidamente in pista, ma nel 1977 vince nuovamente il Campionato del Mondo, che riconquista anche nel 1984.

 Clay Regazzoni lascia la Ferrari e passa alla Ensign. Nel 1980, mentre corre a Long Beach, negli Stati Uniti, lo United State Gran Prix West, va a sbattere a 280 kmh. contro il guard-rail.

Finisce sulla sedia a rotelle. Neppure lui si arrende, fonda una scuola di guida per paraplegici e corre niente meno che l’estenuante Parigi-Dakar. Muore in un inspiegato incidente stradale nel dicembre del 2006, mentre guida a non più di cento all’ora sull’autostrada Parma-La Spezia.


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