Me lo ricordo come se fosse ieri quel 20 maggio del ’99, quando il professor Massimo D’Antona venne assassinato mentre si recava al lavoro.
Ricordo il suo coraggio riformatore, la sua saggezza, la sua grinta, l’aberrazione delle Nuove Brigate Rosse e il clima di follia che avrebbe condotto, tre anni dopo, all’assassinio di Marco Biagi.
Si poteva essere più o meno d’accordo con D’Antona e con le sue idee ma una cosa è certa: la sua morte, al pari della morte di Biagi, ha impoverito il nostro dibattito pubblico, favorendo l’impoverimento non solo del dibattito medesimo ma anche della qualità delle leggi e, di conseguenza, di milioni di persone, condannate alla precarietà esistenziale dal vento di destra neo-liberista si è impadronito dell’Occidente nell’ultimo quarantennio, coinvolgendo da vicino anche la sedicente sinistra.
Ricordo la discussione che ne seguì e il bambino che ero, il formarsi della mia passione civile e del mio spirito critico, il ripudio di ogni forma di violenza e il desiderio di argomentare, di battermi, di lottare e di credere in qualcosa anche nel momento più drammatico dal dopoguerra.
Non avrei mai creduto che la morte di un uomo, di un docente di Diritto del lavoro, di una figura che, per forza di cose, non è mai entrata nella mia vita mi avrebbe segnato così nel profondo. E oggi che il bambino di allora ha quasi trent’anni, mi rendo conto di ciò che abbiamo perso con la sua scomparsa e di ciò che essa ha rappresenato per un Paese imbarbarito e nel quale il lavoro, per molti, e in particolare per la mia generazione, è diventato un miraggio.
A sua moglie Olga voglio che giunga il messaggio che non l’abbiamo dimenticato.
P.S. Dedico quest’articolo a Nanni Balestrini, uno dei capisaldi del Gruppo ’63. Quanto ci mancherà la sua geniale irriverenza che non si confondeva mai col coro!