Decidere di diventare xilografo significa sostanzialmente abbracciare una vocazione, con tutto l’onere di sacrificio e dedizione che una scelta di questo tipo comporta. Non è l’ambizione, il desiderio di gloria e di ricchezza a spingere verso quest’arte antica e certosina, essa non promette fasti, al contrario assicura fatica, difficoltà, privazioni. Come scrive Bianca Maria Luzzi, «non tutti possono servire degnamente quest’arte fatta di lotta. Ci vuole lo sprezzo della fatica, ci vuole la fermezza della volontà; ci vuole occhio destro e mano sicura. Il tratto della xilografia non si corregge: se il ferro urta in una fibra del legno e scatta, il lavoro è perso. Questo è il rischio al quale altri meno onesti si sottraggono molto comodamente; graffiano appena il legno limitando la loro zona d’operazione allo strato superficiale sfoggiando magnifiche curve e minuti chiaroscuri che son costati la pena di un disegno a matita. Ma questi non sono xilografi». (Bianca Maria Luzzi, Emilio Mantelli xilografo, in «Luce, rassegna de La Giovane Italia», II, n. 2, dicembre-gennaio, p. 25)
Ben lo sa Edoardo Fontana, xilografo egli stesso, che cita questo passo nella sua monografia dedicata a Emilio Mantelli, Emilio Mantelli xilografo, pubblicata sulla rivista «ALAI» (n. 5, MMXIX) e poi ristampata in trentanove esemplari nel gennaio del 2019, a cura dell’autore. Né è un caso che Fontana abbia dedicato il suo saggio proprio alla figura di Mantelli, incisore il cui talento artistico si espresse nel breve arco di un lustro o poco più: a questo artista, nato a Genova nel 1884 e morto a Verona l’11 novembre del 1918 a causa di una infezione polmonare contratta durante il servizio militare, Fontana deve la sua personale conversione all’arte xilografica, passata attraverso la suggestione esercitata dall’armonia, dalla grazia, dall’eleganza scarna ed essenziale de La bimba, incisione sicuramente fra le più belle di Mantelli, nonché uno dei vertici più alti della xilografia italiana.
L’accurato saggio di Fontana ripercorre tutta la breve ma intensa parabola umana e artistica di Mantelli, figlio di un fornaio ma restio a portare avanti l’attività di famiglia, svelando invece un precoce desiderio di dedicarsi all’arte. Sostenuto dal padre in questa sua aspirazione, a diciassette anni Mantelli si trasferì a Firenze per frequentare l’Accademia di Belle Arti, ma «irrequieto e scostante» non si appassionò che alle lezioni di nudo di Giovanni Fattori, alla morte del quale intraprese un viaggio a Parigi di cui si hanno poche notizie ma che dovette collocarsi tra il 1906 e il 1908. Per quanto povero di documentazione e per quanto caratterizzato da povertà e stenti, questo periodo dovette avere un peso importante nella formazione di Mantelli, come sottolinea Fontana: «la risonanza dei trascorsi nella città francese sarà largamente riscontrabile nei legni di Mantelli per “L’Eroica” e per Formiggini: una eco della lezione di Èmile Bernard oppure la rielaborazione della xilografia di Armand Seguin, Tre donne bretoni con i loro figli, dove l’immagine in primo piano nell’originale del 1894 è riproposta quasi alla lettera nella tavola Balia bretone; la poetica nabis dei numerosi acerbi nudi, il primitivismo armonioso di Gauguin, oppure il vigore di Auguste Lepère che con le sue matrici aveva con un colpo di spugna cancellato la monotonia della xilografia di riproduzione. E soprattutto i contrasti di masse nere e bianche di Felìx Vallotton, lui svizzero ma che a Parigi aveva trovato la sua strada, il cui insegnamento spesso guiderà Mantelli nella realizzazione dei suoi capolavori, primo fra tutti l’Autoritratto (di cui diremo ancora) e il Ritratto di Gino Biagioni».
Rientrato in Italia, Mantelli iniziò, a partire dal 1911, a dedicarsi alla xilografia, su invito di Ettore Cozzani, direttore della rivista «L’Eroica», che nel 1913 riservava per la prima volta all’artista spezzino un intero volume. Nel suo saggio Fontana sottolinea come Cozzani vedesse in Mantelli «fin dal primo giorno – così Cozzani stesso scriveva in un articolo pubblicato nel 1911 su «L’Eroica» — l’espressione umana più tipica dell’incisore in legno; poiché pare che nel suo corpo si sien riflesse le qualità delle figure ch’ei sagoma sulla tavola con costretta violenza di punte». Le pagine in cui Fontana si sofferma sul modo di incidere di Mantelli – il quale «lavorava soprattutto di notte, senza curarsi della qualità dei legni, raschiandoli “ferocemente col primo ferro” che trovava e intraprendendo “una tenace battaglia” con la matrice che doveva apparirgli ostile» — lasciano trasparire tutta la materica sensualità della prassi lavorativa mantelliana, come si evince da quest’altro passo: «è evidente l’approccio passionale e totalizzante che ebbe nei confronti della tecnica xilografica: distrusse molti legni, “si forò una mano ed ebbe un impeto d’ira verso l’arte di così aspra conquista” ma ormai era diventato uno xilografo “e la semplicità rigidissima a cui non venne mai meno, lo pose tra i primi”».
Fontana scrive di Mantelli e della sua tecnica incisoria con la sicurezza, la competenza e l’empatia di un compagno di corporazione che conosce i segreti del legno, i ferri del mestiere, le lunghe ed estenuanti veglie, la fatica, la stanchezza, le lotte per trarre dalla durezza delle matrici l’immagine desiderata, con la consapevolezza che ogni gesto è irreversibile, ogni segno che va a incidere la superficie vergine delle tavole un atto di perentoria e assoluta precisione, ogni passo falso un fallimento. Finanche lo stesso ritratto fisico di Mantelli, mediato da un testo di Bianca Maria Luzzi – «bello di una sua bizzarra bellezza, snello e flessibile come un giunco, […] nervoso e agile come un camoscio» – sembra riflettere l’aspetto di Fontana, del resto, come si è visto, fin troppo presago dell’inquietudine profonda che attraversa la mente di uno xilografo nel suo impeto creativo e della rigorosa disciplina cui questi si vota. Il furore quasi erotizzante col quale Mantelli aggrediva il legno lo indusse a sperimentare matrici e ferri di vario tipo: «oltre al pero e al bosso che incideva con un bulino, Mantelli provò il duro ulivo che rovinava le punte di metallo e il noce altrettanto coriaceo così come i legni più morbidi, raramente sperimentati prima, adoperando lancette e sgorbie per “entrare nel legno di leccio” fino a tentare “con audacia folle anche l’abete”. Durante la guerra poi imparò a padroneggiare le tavole di baraccamento che il falegname del reggimento piallava per lui, usando spesso le irregolarità della fibra con scopo espressivo e taglienti di fortuna che lasciavano sulla matrice la memoria della loro forma: ne è un esempio Soldati in marcia (I muletti) che sfrutta la sequenza di linee orizzontali del legno grezzo e un intaglio approssimativo per ricreare l’atmosfera di una salita faticosa di soldati tra i banchi di neve. Sul suo ecclettismo e sul segno attuale ed elegante, che voltava in poesia il primitivismo, si modellarono molti xilografi negli anni tra le due guerre. Sin dagli esordi, senza farsi condizionare dalla moda dei pregiati legni di testa, seppe riunire tradizione e innovazione in una disciplina che era innegabilmente, e per sua stessa natura, ingessata in un immobilismo secolare».
Fontana segue l’evolversi dello stile mantelliano che sebbene derivasse da quello neoellenico del De Carolis si allontanava dal modello del maestro per un minore calligrafismo e una maggior durezza e spigolosità del segno che privilegiava l’uso della sgorbia in luogo del bulino. Le immagini di Mantelli sono capaci di estrema stilizzazione, egli inoltre rifacendosi a «processi arcaici, consueti ai primordi dell’arte», utilizzava anche la lancetta. Il distacco completo dal maestro si ebbe sul finire del 1913 quando De Carolis e i suoi più stretti seguaci uscirono dal comitato direttivo de «L’Eroica». Mantelli prese pertanto parte alla “secessione” proclamata da Ettore Cozzani assumendo di fatto la direzione artistica della rivista. Il contributo fornito da Mantelli a «L’Eroica» sarà rilevante e negli anni troverà conferma postuma nei tre fascicoli a lui riservati, appunto dopo la sua morte, nel 1920 e nel 1936, occasione quest’ultima, in cui vennero ristampate ben trentacinque sue xilografie. Intanto nel 1912 partecipava alla Mostra Internazionale di Xilografia di Levanto, nel 1914 alla Biennale di Venezia, e nel 1915 alla Terza Esposizione Internazionale dell’Arte della Secessione a Roma. Mantelli prestò la sua opera anche all’editore Angelo Fortunato Formiggini, illustrando alcuni testi dei Classici del ridere. A Mantelli avrebbe dovuto essere affidata l’illustrazione dell’edizione integrale del Decameron, in dieci volumi curati da Cozzani e decorati con almeno trecento incisioni. Ma il progetto originario venne modificato in quanto Formiggini temeva che affidare a un solo artista un numero tanto elevato di disegni poteva comportare il rischio di una monotonia evitabile nel caso in cui ogni giornata decameroniana fosse stata affidata alla mano di un artista diverso. Fu così che solo la prima giornata del Decameron venne assegnata a Mantelli. Nel seguire tutte le tappe della produzione di questo artista, i successi e i riconoscimenti – che tuttavia non ne mutarono l’indole schiva e lo stile di vita semplice – Fontana sottolinea come l’incisore spezzino si inserisca «con prepotenza tra le figure più rappresentative della xilografia europea», pur rimanendo «ardua una possibile catalogazione all’interno di una sistematica dei movimenti artistici», ma questo, in fondo, non fa che confermarne l’originalità.
Tutta la sua parabola artistica è contenuta nell’arco di sei anni: la morte venne a interrompere una carriera in piena fioritura che certo avrebbe prodotto, se avesse avuto un futuro, non pochi pregevoli esiti. Nel tracciare con efficacia il profilo di questo artista la cui linea elegante «aveva costruito indimenticabili architetture fuori dal tempo», Fontana stigmatizza anche l’oblio cui immeritatamente Mantelli fu condannato per lunghi anni dopo la sua scomparsa: dopo la mostra del 1919, organizzata da Bragaglia, è necessario attendere fino al 1927 per avere notizia di una personale a lui dedicata (assieme a Giuseppe Siccardi e Amighetto Amighetti) presso la Galleria Micheli di Milano. E trascorsero poi altri cinquant’anni prima che nella sua città, La Spezia, si tenesse, grazie all’impegno di Paola Paccagnini, una retrospettiva delle sue opere, in gran parte derivanti dalla Collezione Biagioni.
L’oblio che lo avvolse non riuscì comunque a vincere la forza del suo magistero artistico, che ancora oggi è in grado di fare proseliti se è vero, come si è detto all’inizio, che proprio grazie ad un’opera di Mantelli, l’autore di questa monografia a lui dedicata, decise di apprendere l’arte xilografica e, pur nella ecclettica varietà in cui si esprime il suo talento artistico, è come xilografo che oggi Fontana si presenta nel suo biglietto da visita. Appare più che evidente come, date queste premesse, scrivere di Mantelli fosse per Fontana una tappa obbligata, un atto dovuto, il tributo a un maestro mai incontrato di persona ma tanto rilevante da influenzare un percorso di vita e determinare una vocazione artistica. È anche per questo che la monografia Emilio Mantelli xilografo, è nella sua versione in plaquette a tiratura limitata, un autentico libro d’arte: vera e propria mise en abyme che condensa in sé in modo esemplare non una ma due storie d’artista.
Ricco l’apparato iconografico che correda la plaquette, riproducendo alcune delle più significative incisioni mantelliane, fra cui spiccano la Vittoria Alata (particolare della copertina de «L’Eroica», fascicolo 30-31, 1914), in copertina, l’Autoritratto (1913), nell’aletta anteriore, e Ines o Ritratto di donna (1914), sul frontespizio.
A Edoardo Fontana va inoltre riconosciuto il merito di aver colmato con questo testo una lacuna, mancando, specie negli anni recenti, uno studio approfondito sull’opera dell’incisore spezzino: l’ultimo prezioso contributo, opera di Paola Paccagnini, risale infatti agli anni Novanta e fu purtroppo interrotto dalla prematura scomparsa della studiosa, nel 1995, proprio mentre lavorava all’importante saggio su Mantelli.