Le tensioni tra Usa e Iran sono sempre maggiori ma non vi sarà una guerra contro Teheran, una potenza troppo forte per reagire senza mettere a rischio tutta la regione. E la situazione più delicata è sì nelle acque del golfo Persico, per possibili incidenti tra navi della Quinta flotta Usa e i Pasdaran che controllano lo stretto di Hormuz, cruciale per il traffico marittimo del petrolio, ma entrambe le parti conoscono le loro “linee rosse” e nulla è cambiato nei loro comportamenti neanche dopo che gli Usa hanno messo gli stessi Guardiani delle rivoluzione nella lista delle organizzazioni terroristiche. Ad esserne convinto è l’analista politico ed economista iraniano Saeed Leylaz (nella foto, tratta dal profilo Wikipedia), uno dei consiglieri del governo di Hassan Rouhani, che ha però anche scontato un anno di carcere, per aver partecipato all’Onda Verde del 2009 contro la rielezione a presidente di Mahmoud Ahmadinejad.
Siamo ora più vicini alla guerra vera, dopo quella economica contro l’Iran, anche per il mancato rinnovo delle esenzioni dalle sanzioni agli otto Paesi che finora potevano acquistare petrolio iraniano?
“Gli Stati Uniti stanno cercando di innervosire la Repubblica Islamica. Finora la classe dirigente è stata in grado di tenere le cose sotto controllo, ma se l’export del petrolio dovesse scendere sotto i 600-700.000 barili al giorno non sono sicuro che l’Iran continuerà ad essere così civile”. Quanto ai Pasdaran nella lista nera, per quanto si tratti di una mossa “molto pericolosa” sul piano politico, “per i militari Usa non fa differenza: non vogliono farli innervosire, il loro comportamento non è cambiato e nemmeno il nostro”.
Visto che i Pasdaran sono anche un potentato economico oltre che militare, non sarebbe meglio per loro non danneggiare i propri affari?
“Non vogliono la guerra, ma se li si mettesse nelle condizioni di reagire, il Golfo Persico, Hezbollah, Hamas, lo Yemen, Tehran, l’Iraq, tutti sarebbero coinvolti. Potrebbero venire distrutte le strutture petrolifere della regione. Per i Pasdaran gli Emirati Arabi Uniti sono come un grande hotel, basterebbe un missile per far collassare Dubai. Benché dunque la situazione sia pericolosa, nessuno vuole un conflitto. Nemmeno i sauditi: il loro è un regime fragile”.
Un conflitto con l’Iran lo vorrebbero invece, sostiene il vostro ministro Javad Zarif, il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il consigliere del presidente Usa, John Bolton: due dei quattro componenti della “B-Team”, insieme al leader saudita Bin Salman e all’emiratino Bin Zayed.
“Sì, ma come dice Zarif il presidente Trump non lo vuole. E Bolton non è più forte dei vertici militari Usa, che sono contrari. E credo che sia contrario anche il Segretario di stato Mike Pompeo”.
Però lo stesso Pompeo ha posto dodici pesanti condizioni nell’ipotesi che Teheran voglia negoziare con Washington.
Ma di fatto, risponde l’analista, la maggior parte di tali condizioni sono già nei fatti. “Non siamo più in Siria, la presenza nostra e di Hezbollah è ormai solo simbolica, ritirata a 180 km dal confine di Israele”, su pressione del presidente russo Vladimir Putin. Inoltre, “non è stato compiuto alcun test missilistico in questi ultimi 12 mesi, e i test non vanno oltre i 2000 km di gittata”. “Dunque non siamo in Siria – ribadisce – non siamo in Iraq, non siamo in Yemen. Se ci fosse stata anche una sola nave o un aero a portare armi dall’Iran allo Yemen lo saprebbero tutti. Se ne hanno le prove perché non le mostrano? Non abbiamo accesso in Yemen da tre-quattro anni”. Sono invece i ribelli Houti, sostiene, a produrre i propri missili, ne hanno la piena capacità. Mentre le accuse all’Iran servono solo a “nascondere l’incapacità saudita di risolvere la questione yemenita, che non si risolve con la guerra”.
Vi sono dunque, nonostante tutto, le condizioni per un negoziato con Washington?
“Credo che Trump abbia bisogno di parlare con l’Iran e l’Iran con Trump”, risponde Leylaz. E lascia capire che colloqui sono già in corso, anche su questioni regionali, con l’intervento di altri leader da Iraq, Pakistan e Oman. “Ci sono Paesi e persone che cercano di favorire una mediazione tra Washington e Teheran, tra l’Arabia Saudita e l’Iran. E Zarif ha detto a Fox News che Trump non vuole la guerra. Insomma, sono segnali piccoli ma importanti”.
Del resto, è convinto l’analista, non ci sono alternative politiche alla Repubblica Islamica: un collasso del sistema sarebbe un bagno di sangue devastante, come dimostrato dai precedenti in Siria e in Iraq. Una leadership alternativa “non è certo Maryam Rajavi”, dice della leader del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana erede dei Mujaheddin del Popolo (Mko), schieratisi con Saddam nella guerra Iran-Iraq. Né lo è il figlio dell’ultimo Scià, Reza Pahlavi, assurto a nuova visibilità, ma che vive in America ed i cui figli “non sanno nemmeno il persiano”. Inoltre, aggiunge, “la Rivoluzione Islamica è ancora abbastanza forte tra la gente, bastava vedere la partecipazione per il quarantennale. Io stesso – aggiunge – sono un rivoluzionario”.
Una parola che però si sente pronunciare meno tra le nuove generazioni
Tra gli iraniani vi è molto scontento, afferma, ma “sui social media il numero degli oppositori radicali sembra enorme mentre a scendere in piazza in tutto il Paese, tra fine 2017 e inizio 2018, sono state in una settimana non più di 120 mila persone”.
La Repubblica islamica sopravviverà dunque alla crisi?
“Oltre due anni fa – ricorda in merito all’inizio dell’offensiva di Trump contro l’accordo sul nucleare – ci chiedevamo se la struttura politica sarebbe collassata, ma ora credo che rimarrà stabile. Negli ultimi mesi abbiamo subito due gravissimi colpi, le sanzioni e le alluvioni di marzo, ma restiamo stabili. Le alluvioni ci hanno fatto perdere almeno il 2% del Pil in una sola settimana. Due milioni di persone soffrono, abbiamo perso infrastrutture, oltre 100.000 case, 22.000 chilometri di strade, un migliaio di ponti”. Un disastro eccezionale che – sostiene – non si poteva evitare, nonostante i danni ambientali compiuti nel passato: troppe le precipitazioni in sole due settimane.
Cosa pensa delle pesanti condanne inflitte all’avvocatessa per i diritti umani Nasrin Soutodeh?
“Il sistema ha paura di ogni disordine sociale. E ho sentito che lei stessa sta cercando di esagerare in merito alla propria condanna, per avere più visibilità sui media occidentali: la verità è che stata condannata a sette anni, anche se in Occidente si dice che sono 38” (compresi i cinque che sta già scontando, e benché in caso di condanne plurime venga scontata solo la più lunga, cioè quella di dodici, ndr). Certo, a suo avviso un solo giorno in carcere per lei è troppo. Ma, osserva, anche questa condanna va inserita nelle battaglie interne al sistema. Il nuovo capo della magistratura ( Ebrahim Raisi, ndr) – era il rivale di Rouhani alle ultime presidenziali”.
Ed è ancora la paura di disordini, ribadisce l’economista, che trattiene il governo Rouhani dal compiere quelle riforme radicali che potrebbero affrancare il Paese anche dalle sanzioni Usa. Riforme organiche che lo stesso Leylaz dice di avere proposto, e che ogni giorno diventano drammaticamente più urgenti. E snocciola i dati: un’inflazione del 52% sui 12 mesi, che tocca il 90% per beni essenziali come cibo e bevande e anche il 200% per i prodotti caseari, con centinaia di migliaia di persone che ogni giorno precipitano nella povertà. Cifre che non si spiegano solo con le sanzioni, dice, ma anche con le politiche monetarie. E poi c’è un enorme eccesso di consumi energetici: ogni giorno consumi da circa 200 milioni di litri tra benzina e diesel e da 700 milioni di metri cubi di gas naturale. Se vi fosse anche solo una riduzione del 20%, questa energia – evidenzia – potrebbe essere venduta ai paesi vicini con una riduzione significativa dell’impatto delle sanzioni sul petrolio, e la possibilità di sussidi ai più poveri. Inoltre, sottolinea, vanno affrontati i problemi della corruzione e della cattiva amministrazione, e intensificati gli scambi con i Paesi vicini. Ma sarà sempre più verso est che guarderà l’economia iraniana, e alla Cina in particolare, e sempre meno all’Europa.
L’Iran dunque non guarda più all’Europa?
“Ormai ho perso ogni speranza sull’Europa, dove l’Italia sta solo in seconda fila. Quando parlo di Europa penso in realtà a Francia e Germania”. Inoltre, “ci sono strategie molto più importanti di Instex – conclude a proposito dello Special Purpose Vehicle varato in Europa per permettere gli scambi nonostante le sanzioni – . Stiamo portando la nostra economia verso est, mentre Trump cerca di estromettere l’Europa dall’Iran”.