Per comprendere l’estrema difficoltà di valutare gli ultimissimi episodi delle mai quiete relazioni tra Stati Uniti e Iran, è opportuno non dimenticare che la Repubblica degli ayatollah costituisce ormai da decenni un nodo profondo dell’immaginario statunitense, oltre a una questione d’importanza strategica per la sua politica estera. Nondimeno, è anche vero che nel tempo l’alternanza di repubblicani e democratici alla Casa Bianca ha mostrato notevoli diversità di approccio a quella complessa e tanto controversa realtà, perfino maggiori di quelle registrate con i cambi di governo a Teheran. Ed ora ci troviamo una volta ancora in un momento particolarmente contraddittorio e perciò stesso altrettanto pericoloso.
Assistiamo a una serie di decisioni americane che mirano a incalzare l’Iran in una rapida escalation, anche oltre le intenzioni dello stesso Donald Trump. Che vuole costringerlo a ridurre ogni sua iniziativa nella regione, ma non a qualsiasi prezzo. E’ ciò che lasciano intendere alcuni suoi indiretti richiami a John Bolton, il consigliere per la Sicurezza Nazionale. Che coincidono con la ritrosia del Presidente a sostenere i costi economici di imprese militari, da cui appare semmai più propenso a ritirarsi. Al tempo stesso, però, egli ha bisogno di mostrare al proprio partito e agli elettori che la sua risolutezza paga, quindi si guarda bene dallo smentire apertamente la bellicosità di certi suoi collaboratori.
Questa nuova criticità è stata aperta con il recente annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran sul nucleare, sottoscritto nel 2015 dopo laboriosissime trattative a lungo ostacolate tanto dai falchi di Teheran quanto da quelli a Washington, gli uni e gli altri mai del tutto rassegnati. Si tratta di un’intesa equilibrata e articolata, che soddisfa le esigenze fondamentali di sicurezza d’entrambe le parti. La rinuncia iraniana al nucleare-militare ne è la premessa e l’essenza. Un corollario di reciproci riconoscimenti e concessioni ne sono l’architrave. Rimasto a tutt’oggi notevolmente incompleto. Tra i meccanismi finanziari concordati, c’è un punto -ad esempio- previsto per favorire gli iraniani nel pagamento delle loro importazioni. Dal Dipartimento di Stato hanno rammentato più di una volta al Presidente che la sua implementazione li indurrebbe certamente ad atteggiamenti meno rigidi.
Ma questi sono passi della diplomazia silenziosa che guarda al sodo, ai rapporti costi-ricavi. I politici in certi casi preferiscono invece il clamore, alcuni più di altri: sono attratti dai gesti che destano attenzione. Mandare una portaerei, annunciare che 120mila uomini in assetto di guerra possono seguirla, mettere in allarme i cacciabombardieri delle basi aeree limitrofe appaiono loro di ben maggiore efficacia. Sebbene l’esperienza insegni che favoriscono risposte analoghe e contrarie. Né l’Iran fa eccezione, tutt’altro. Infatti sia pure con estrema attenzione nel dosare le repliche, usa il medesimo tono. E chiama in causa gli europei, ricordandogli che a denunciare il trattato è stato Trump, ma sono loro che ne sopporteranno i costi maggiori. E’ evidente che le sanzioni commerciali danneggiano anche i partners dei paesi sanzionati. Il ministro degli esteri spagnolo, Josep Borrell, ha dichiarato che la Spagna farà ricorso alla WTO, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, se le sue compagnie a Cuba saranno pregiudicate dall’inasprimento del blocco annunciato da Trump come ritorsione alla presenza di consiglieri militari cubani in Venezuela. E il suo collega della Difesa ha richiamato la nave da guerra spagnola che si era aggiunta alla squadra statunitense in navigazione di crociera ma improvvisamente dirottata dal suo comando sullo stretto di Hormuz. Altrettanto ha fatto la Germania. L’Unione Europea considera infatti ancora valido ed efficace il patto con l’Iran e sono note le preoccupazioni di vari governi di fronte al rischio che il trattato salti del tutto .