MILANO – Un’immersione multisensoriale nell’immaginario degli anni ’80: i protagonisti sono tre, attori-ballerini-mimi, che giocano con le quinte sul palcoscenico, entrando come figurine bidimensionali dentro i quadri proiettati sulle pareti. Si tratta inizialmente di una città, poi di una casa e man mano entriamo nel salotto e negli altri ambienti, compresi il tetto, il giardino e la piscina. Ci sono colori netti, movimenti a scatti, fumetti. Sembra quasi di entrare nel mondo delle Barbie, dove anche le emozioni sembrano di plastica. E viene naturale il parallelo con il video iconico di Take on me, hit del 1985 degli A-ha, in cui il fumetto si animava e interagiva con la realtà.
Le parole restano sullo sfondo, un po’ perché anch’esse spezzate e ripetute, come i movimenti degli attori-manichini, un po’ perché inserite in un vortice di Babele, in cui si passa da un italiano quasi futurista al greco antico, dal tedesco all’inglese. Il suono e le immagini hanno il sopravvento sul potere evocativo delle parole, la narrazione ne fa a meno: si avverte la mancanza di un sistema verbale, ma pare quasi una voluta riflessione sulla comunicazione, che negli anni ’80 cominciava a cambiar pelle, ad accelerare, a riempirsi di esteriorità, a perdere un centro semantico.
Come in una sorta di rivoluzione pop, fatta di linguaggi pubblicitari e progresso tecnologico che sta per esplodere nel mondo, si parla con un robot dagli occhi accesi a intermittenza mentre il tango si balla con un’aspirapolvere. Entriamo, forse oggi più a nostro agio di come poteva sembrare 37 anni fa, in una vertigine di spaesamento, il disorientamento si traveste da conformismo, dove siamo tutti un po’ manichini nel meccanismo del mondo, anche se forse è meglio essere manichini consapevoli che inseguire ideali quasi in frantumi…
Ed ecco che le forbici che potano certezze granitiche nel giardino col respiro sempre più corto, ci sembra l’immagine più potente. Ci lasciamo trasportare dalla musica e dai cambi di scena repentini in cerca di un senso, ma senza angoscia, un po’ come in un flipper in cui si cerca di seguire le evoluzioni della pallina sapendo che esse non hanno chissà quale spessore recondito. Si avverte l’energia che percorre questo lavoro, anche se nell’involucro glaciale dell’apparenza sfrenata, alla quale però oggi forse siamo molto più avvezzi che nel 1982, quando la prima versione di questo spettacolo vide la luce a Napoli, rappresentando una vitale ripartenza per una scena teatrale molto bisognosa di uscire dai codici classici e dalla centralità del testo tradizionalmente inteso.
Una scossa, insomma, che propaga ancora la sua azione di pungolo, ma che oggi appare meno dirompente. Chissà che effetto fa il connubio tra la musica (tra l’elettronico e il jazz), i suoni, alcuni dimenticati (il tu tu del telefono, per esempio), e le immagini in technicolor, tutto così tipico degli anni ’80, su un ragazzo che non li ha vissuti in prima persona. I tre interpreti, d’altronde, sono tutti sicuramente nati in epoca ben più recente.
E quando sul finale si diffonde il Libertango di Grace Jones, con il suo mélange di languore argentino e di artificiosità nell’arrangiamento, sembra di averlo quasi sempre saputo che lo spettacolo sarebbe finito così, evocando l’iconica cantante-fotomodella dal rouge à lèvre perfetto, impossibile da sbavare perché inavvicinabile. La solitudine dei personaggi, legati più da una simmetria di movenze che da una relazione leggibile, aleggia infatti in tutte le scene eppure non ci mette in empatia con essi e ci lascia di sale, più che di ghiaccio.
Tango glaciale reloaded
15 mag 2019 – 19 mag 2019 al Teatro Franco Parenti, Milano
progetto, scene e regia Mario Martone
riallestimento a cura di Raffaele Di Florio e Anna Redi
elaborazioni videografiche Alessandro Papa
con Jozef Gjura, Giulia Odetto, Filippo Porro