“A forza di dire una bugia, si finisce col crederla una verità” recita un proverbio. Ed è quanto accaduto all’indomani della scomparsa di Emanuela Orlandi (22 giugno 1983) con la voce, del tutto infondata, che avrebbe voluto i servizi segreti francesi autori di un’informativa preannunciante il rapimento di un cittadino vaticano. Una fake new fatta circolare per accreditare la connessione tra la sparizione della ragazza e l’attentato al Papa, rilanciando così la tesi del complotto internazionale contro lo Stato della Città del Vaticano, che sarebbe stato inaugurato proprio il 13 maggio 1981 col tentato assassinio di Giovanni Paolo II per mano del terrorista turco Alì Agca.
Ben altra è invece la realtà. E a trentotto anni dai drammatici fatti di piazza San Pietro vale la pena chiarificarla a dovere per porre fine al protrarsi di una distorsione degli eventi che, di riflesso, sbarra anche la strada verso la verità. Il punto centrale della questione è che gli 007 francesi furono presenti sotto il Cupolone solo per eventuali gesti contro l’incolumità del Santo Padre. È quanto emerge dalla gigantesca inchiesta giudiziaria sui mandanti dell’attentato a Wojtyla, durata ben tredici anni (1985-1998) e che, seppur conclusa con un’archiviazione, è comunque preziosa miniera di notizie per mettere a fuoco alcuni dei numerosi soggetti che si affacciarono nella vicenda. Fra questi, l’allora SDECE, il servizio di controspionaggio transalpino, dal novembre 1970 al giugno 1981 diretto dal conte Alexandre De Marenches. Al quale, poco dopo l’elezione del pontefice polacco, giunse, da fonte attendibile, la notizia che sarebbe potuto essere oggetto di un’azione violenta. “Questa minaccia proveniva dall’Est e, trattandosi della eliminazione di un Papa, di origine polacca per di più, doveva essere presa seriamente in considerazione” fece mettere a verbale il 16 novembre 1989.
Per recapitare l’informazione, il nobile inviò a Roma due suoi uomini di fiducia, il funzionario Valentin Cavenago e il generale medico Maurice Beccau, che mise in contatto con monsignor Calmes, abate generale dei Padri Premostratensi, suo amico di vecchia data. “Il 29 maggio 1979 sono stato contattato dal medico generale Beccau […] per portarmi in sua compagnia il 1° giugno 1979 a Roma” disse Cavenago agli inquirenti, specificando che viaggiarono su un volo di linea e senza ricorrere a false identità. Il colloquio fra i tre durò circa un quarto d’ora. “Il signor Beccau l’ha informato di un forte rischio. Nella mente di monsignor Calmes, come nella mia, ci è balenato che Sua Santità avrebbe potuto essere vittima di un attentato durante il suo viaggio in Polonia […]Noi siamo rientrati la sera stessa a Parigi”.
Proprio dal 2 al 10 giugno di quell’anno Giovanni Paolo II effettuò il suo primo viaggio nella Polonia comunista. Appare quindi abbastanza improbabile che il rischio fosse per quella trasferta, viste le difficoltà temporali a predisporre un particolare piano di sicurezza. Anche se le vie del Signore sono sempre infinite. Inoltre il vincolo di riservatezza di De Marenches – “Sono sempre legato al segreto […] e perciò non posso rivelare la fonte di questa informazione pervenuta ai miei servizi” – impedì di accertare se vi fossero, o meno, legami tra quell’informativa e gli spari di Agca due anni più tardi. Di certo, ci furono: il messaggio, la minaccia e la messa al corrente da parte dello SDECE. Non sappiamo però se chi di dovere la prese in seria considerazione. Secondo la sentenza di quell’inchiesta: “Molti altri interrogativi di questa inchiesta avrebbero avuto necessità, per tentare di risolverli, dell’ausilio della Città del Vaticano” ma la magistratura italiana si trovò al cospetto di un atteggiamento che apparve “intento – non si comprende da quali finalità determinato – di chiudere ogni indagine sul delitto e di porre una pietra tombale sulla ricerca della verità”.
La mancata collaborazione della Santa Sede è analoga a quella sciorinata nel caso Orlandi. In riferimento al quale, però, i servizi segreti francesi mai ipotizzarono possibili rapimenti di un cittadino vaticano a causa della mancata uccisione del Santo Padre. Una simile informazione, da parte di una fonte tanto autorevole, avrebbe messo in subbuglio Oltretevere, che avrebbe dovuto predisporre piani di sicurezza per ognuno dei suoi abitanti. Dai ragionamenti ai documenti. Anche nella voce che alcuni dipendenti vicini a Wojtyla si lamentarono per i pedinamenti subìti dalla figlia di uno di loro dopo il 13 maggio 1981, è sottile il confine tra realtà e suggestione. A detta della giovane, per alcune mattine sul suo autobus saliva un uomo che si sistemava vicino a lei per scendere dopo poche fermate. Fu un episodio isolato, che durò pochi giorni. Se fosse stato qualcosa di serio e reiterato e quell’uomo fosse stato davvero un pericoloso 007 ghermitore di povere e indifese fanciulle, come fu descritto e come si è cercato di tramandare nel tempo, sarebbe stato denunciato immediatamente. Non, come fece la diretta interessata, tre anni dopo, nel luglio 1984. Cioè dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi e quando era già in alta quota la sua connessione con l’attentato al Papa. Tra l’altro, le due inchieste, per alcuni fronti, operarono di concerto, scambiandosi le informazioni ove necessario. Come per la pista turco-tedesca. Ma non per i servizi segreti francesi. Dei quali, nel caso Orlandi, non v’è traccia. Rien ne va plus.