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FLAIANO (diciottesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Tra Flaiano e Fellini aleggiava un’ombra ingombrante, a causa di una ruggine che si era depositata sulla loro amicizia e stentava a dissolversi. Al tempo di Giulietta degli Spiriti, in seguito a un banale incidente di protocollo, chiamiamolo così, s’era creato un attrito invisibile, che alla fine era precipitato in un muto, sotterraneo, livore.

Nel viaggio verso New York che il produttore Angelo Rizzoli aveva organizzato per il lancio del film in America, allo sceneggiatore era stato riservato un posto in classe turistica mentre Fellini, insieme a Giulietta e Sandra Milo, viaggiava in prima. Fellini aveva ripetuto fino alla noia che c’era stato un errore di prenotazione da parte della produzione, di cui lui non poteva essere al corrente. Ma il penalizzato ne dedusse che il suggeritore occulto di quell’affronto fosse lo stesso Federico, compiaciuto di godersi indisturbato il ruolo da primadonna, adorato e vezzeggiato. Al centro dei riflettori troneggiava invariabilmente il regista, bersagliato dalle domande dei giornalisti, celebrato in ogni circostanza, protagonista unico del successo del film; mentre gli sceneggiatori, coautori non certo marginali del buon esito dell’impresa, erano sistematicamente relegati nell’ombra. Flaiano, che aveva dieci anni più di Fellini, mal sopportava quel ruolo ‘ancillare’, essendo anche uno scrittore famoso, vincitore della prima edizione del Premio Strega (1947) con un romanzo che gli aveva commissionato Leo Longanesi; quel Tempo di uccidere che raccontava agli italiani la tragedia del colonialismo militare attraverso la vicenda antieroica di un giovane sottotenente del Regio Esercito catapultato nella guerra di Etiopia.

Col tempo lo scrittore era diventato forse leggermente geloso del successo planetario di Fellini, e benché avesse collaborato con lui fin dall’esordio in “Luci del Varietà”, invidiava in cuor suo quel re Mida capace di trasformare in oro qualsiasi materiale transitasse dalle sue mani. Col tempo aveva iniziato a patire la disinvoltura con cui l’amico regista accaparrava ogni contributo, anche il più raffinato, dei suoi collaboratori, ingoiandolo nel gran crogiolo alchemico della sua creatività, unico possessore della pietra filosofale e della luce abbagliante che ne riverberava.

O più banalmente il rapporto, dopo una decina di film, si era un po’ logorato; e lo sceneggiatore, per sua natura permaloso, colse al volo il pretesto antipatico della trasferta americana per ritrarsi in un sordo rancore.

Dopo aver trascorso qualche settimana negli Stati Uniti, i due artisti una volta tornati a Roma cessarono di parlarsi, e tra loro si creò una crepa giorno dopo giorno sempre più difficile da colmare. Anche per come si intrecciarono gli eventi.

L’anno successivo durante la preparazione di “Il Viaggio di G. Mastorna” Fellini si ammalò di una insidiosa pleurite allergica da cui riemerse per puro miracolo. Riconquistata la salute non volle più saperne di quell’incursione nell’oltretomba, essendosi ormai convinto che gli portasse sfortuna; si rivolse ad altri progetti, scelse nuovi collaboratori. Ritornò sul set ispirandosi a una breve novella di E.A. Poe, “Non scommettere la testa con il diavolo”, di cui scrisse la sceneggiatura insieme a Bernardino Zapponi, un autore di racconti visionari scoperto per caso in libreria. Il film si intitolò Toby Dammit, e l’anno dopo, ancora con Zapponi, il regista mise mano al suo kolossal metastorico, il Satyricon di Petronio Arbitro; quindi all’impareggiabile affresco di “Roma”, nel quale per la prima volta mi trovai io stesso a collaborare.

Nel secondo decennio creativo della sua professione, dal 1965 al 1976, Fellini appose il suo nome, come un marchio di fabbrica, ai titoli dei film: Fellini Satyricon, Roma Fellini, Il casanova di Fellini. E dove non figurava il nome c’era il primo pronome singolare: Amarcord, Io mi ricordo: tanto per chiarire l’assoluta paternità delle opere partorite, che erano sue e di nessun altro.

Quando dunque incontrai Flaiano, lo screzio tra i due amici era una cicatrice ancora irritata; ne ero consapevole, e vivendo in quel momento la mia esaltazione per Fellini, cercavo di destreggiarmi aggirando l’argomento.

Flaiano mi era molto simpatico, era un maestro di vita, di cultura, di aforismi solfurei e abbaglianti con cui fustigava i costumi ridendo, come Orazio: «Mi spezzo ma non m’impiego»: oppure, impagabile: «Crediamo di sposare la nostra fidanzata e invece sposiamo nostra moglie».

Avevo voluto fermamente la sua partecipazione nel programma televisivo che in quel periodo stavo curando per i servizi culturali della RAI e che si intitolava “Come ridevano gli italiani”: una cavalcata in più puntate all’interno del nostro cinema comico delle origini. Gli avevo proposto con giovanile baldanza di scrivere i testi insieme, e lui acconsentì. Così periodicamente, più volte la settimana, mi recavo a trovarlo al residence di via Isonzo in cui abitava, nel quartiere Pinciano; un fabbricato moderno, funzionale e anonimo, incastonato tra i palazzi liberty e umbertini di quella zona elegante. Vi si era traferito dal comodo appartamento di via Nomentana, a Montesacro, dove la moglie Rosetta viveva con Lele, la loro figlia disabile, e si era ritirato in quella minuscola suite, soggiorno con angolo cottura, camera da letto e bagno, per un accomodamento quasi monastico, il surrogato di una cella conventuale in cui non doveva pensare più a nulla. La mattina le cameriere gli riordinavano rapidamente le stanze, e per il resto della giornata andava avanti a scrivere indisturbato sulla sua imponente IBM a testina rotante, appoggiata sull’unico tavolo rotondo previsto dall’arredamento. In sottofondo, assai spesso, la musica di Mozart che amava incondizionatamente. Mozartiano egli stesso nel concerto delle parole.

Arrivavo con le mie cartelline in un’ora comoda e se il giorno precedente avevamo visionato in moviola qualche comica finale, abbozzavamo i testi che il presentatore – per l’occasione Alberto Lionello – avrebbe recitato in trasmissione davanti alle telecamere.

Sicuramente Flaiano aveva accettato quell’impegno, da sbrigare con la mano sinistra, per arrotondare le entrate che nel mestiere delle lettere non abbondano mai.

Inutile dire che era più il tempo in cui si chiacchierava, di quello destinato al lavoro; avendo letto il suo romanzo Tempo di uccidere e molto altro della sua produzione letteraria, potevo ascoltarlo con cognizione di causa; così quando Ennio componeva un articolo, come avviene spesso con i giovani collaboratori, me lo leggeva a voce alta con la scusa di conoscere il mio parere, più verosimilmente per percepirne il suono, l’intonazione, nel riflesso sul mio volto attento. E quando giungeva l’ora di pranzo mi conduceva al ristorante del residence, al piano terra: “Non si mangia male, – mi assicurava – c’è un’atmosfera ospedaliera che favorisce la creatività.” Amava scherzare di sponda intorno alla morte e un giorno mi confidò di essere minato da una grave disfunzione cardiaca. Di operazioni al cuore in quegli anni ancora non si parlava; assumeva semplicemente dei farmaci quando si ricordava.

In quel periodo si vedeva con una ragazza che gli piaceva molto, determinata a diventare sceneggiatrice. Una mattina quando arrivai mi accolse con singolare calore, l’immancabile sigaro tra le dita, in preda a una ingiustificata euforia: “Questa notte non sono stato troppo bene, mi disse, è dovuto accorrere il cardiologo. Il cuore dopo l’infarto perde i colpi; mi ha auscultato e mi ha detto che posso fare l’amore ma solo rimanendo sdraiato di schiena, senza affaticarmi: «Lasci l’iniziativa alla ragazza che è giovane e entusiasta, lei si risparmi». Mi esortava trattando la faccenda alla stregua di un esercizio ginnico, come ci si rivolge a un atleta affaticato.”  Rideva tra i denti, e di tanto in tanto, sebbene gli fosse stato proibito, aspirava minuscole boccate del suo mezzo toscano. Poi aggiungeva, alzandolo in aria come un vuoto trofeo: “Questo invece dovrei proprio buttarlo via, secondo lui.”

Quel giorno non lavorammo, era stonato, non aveva voglia, preferiva continuare a parlare seduto sul divanetto a rivestimento tartan sistemato di fianco al tavolo, forse un letto estraibile per gli ospiti. Mi chiese cosa volevo fare nel mondo dello spettacolo. Risposi che non avevo idee precise, mi bastava restarci dentro. E in ogni caso pensavo di scrivere. “Meglio il regista – mi contraddisse subito – gli sceneggiatori non contano niente. Il film è di chi lo dirige, di chi lo guida sul set.” Fu l’unica volta che alluse di sfuggita alla sua amarezza.

Quando il discorso cadeva su Fellini – più di frequente di quanto supponessi – mai espresse, debbo essere sincero, un giudizio negativo su di lui, o utilizzò parole sconvenienti, e neppure una di quelle sue battute capaci di ustionare. Ne avvertii sempre, al contrario, il profondo affetto velato di nostalgia; forse non tanto per le mancate collaborazioni ai film, quanto io credo per un’appagante frequenza venuta meno, per una perduta complicità che negli anni si era nutrita di spirito caustico, di salace allegria, di ribalda complicità. Un’intesa rara e preziosa tra ‘vitelloni’, termine geniale che certamente gli apparteneva, essendo Flaiano originario di Pescara, in Abruzzo, dove l’espressione viene utilizzata per indicare i giovani sfaticati, inconcludenti, superficiali. Come erano appunto i protagonisti del film che vinse il Leone d’Argento a Venezia rendendo celebre Fellini. Magari la pellicola, chi può saperlo, ebbe successo anche grazie a quell’insolito vocabolo che campeggiava sui manifesti.

A lungo andare lo scrittore dovette mal sopportare che le sue idee, le sue molteplici crepitanti invenzioni, finissero nel tritacarne di un talento superiore, saturnino, che tutto ingoiava, tutto assimilava fino a farne perdere le tracce.

Racconta Giovannino Russo, il quale per un periodo collaborò al “Mondo” di Mario Pannunzio, di cui Flaiano era il capo redattore (anzi il ‘cupo redattore’ come si era ribattezzato da solo), che parlando di Federico il collega gli aveva confidato: “Io sono per Fellini come una Coca- Cola: lui tira dalla cannuccia e aspira.”

Non so se fosse proprio così, ma certo uno sconforto lo affliggeva, una malinconia che lo pedinava come un’ombra. Lo avvertivo ormai rassegnato a una condizione appartata; non se ne lamentava, ma intanto, in segreto, corteggiava le intemperanze del cuore. Qualche settimana dopo il compimento del nostro lavoro, un secondo infarto se lo portò via, e aveva soltanto sessantadue anni.

L’anno successivo, nel 1973, uscì postumo “La Solitudine del Satiro”, alla cui nascita, me ne resi conto in un trasalimento, avevo assistito da uno spiraglio di inimmaginabile privilegio.


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