Agli “intellettuali” si chiede di pentirsi. I “maestri” che pretendono addirittura di insegnare sarebbero gli intellettuali più colpevoli di tutti gli altri. Il dileggio non è di oggi. Nel dialogo che ha per oggetto la conoscenza, il Teeteto, Socrate riferisce «ciò che si racconta di Talete»: «Mentre studiava le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo; onde una servetta di Tracia, arguta e graziosa, lo motteggiò, a quanto si narra, perché si desse gran cura di conoscere le cose celesti, ma di quelle che gli stavan sotto gli occhi e dinanzi ai piedi non s’avvedesse per nulla». Questa semplice piccola storia, commentata in molti modi, seriosi e seri è entrata a far parte della nostra cultura e anche del nostro senso comune.
È dall’antica Grecia che gli intellettuali vengono ciclicamente considerati inutili. Ancora di più ora, in un’ epoca in cui l’ azione precede la riflessione. Ma è proprio la volontà di ridurli al silenzio che, in controluce, dimostra la loro rilevanza Aristofane andava incontro alle risate facili del pubblico quando metteva il filosofo per eccellenza, Socrate, nel suo pensatoio sospeso in una cesta tra cielo e terra: «Non sapevi che le nuvole sono dee e non le onoravi. Tu non sai che esse nutrono fior di sapienti: indovini, dottoroni, cappelloni scioperati con i loro anelli e le unghie ben curate, straziacanti di cori ciclici, ciurmadori di fenomeni celesti.
Esse nutrono questi scioperati fannulloni. In cambio di questa roba trangugiano fette di grossi muggini squisiti e volatili carni di tordi». C’è del vero. Perfino uno dei più intellettualistici tra i filosofi classici, Platone, avvertì l’ esistenza di un limite etico in chi sa solo produrre parole.
Spiegando la ragione dei suoi viaggi a Siracusa presso il tiranno Dionisio, sorprendentemente ammette: «Salpai da Atene, non per la ragione che alcuni credevano, ma perché mi vergognavo assai di poter apparire di fronte a me stesso come un uomo capace solo di parole e che mai mette mano di sua volontà ad alcuna opera».
In seguito, il tema è diventato centrale nella riflessione filosofica, nei termini del rapporto tra teoria e prassi, pensiero e azione, universale e particolare, e ha investito la legittimità del puro pensiero, del pensiero che pensa se stesso, si arrovella su di sé e pretende validità indipendentemente dal suo rapporto con “la vita”. Che cosa viene “prima”:l’azione o il pensiero? Il pensiero è la guida efficace dell’ azione giusta?
Secondo una tradizione che si può far risalire a Socrate, l’azione giusta presuppone la conoscenza della giustizia e l’azione ingiusta dipende dall’ignoranza. Ma un’altra tradizione, testimoniata forse in Esodo (24, 7), mette in primo piano l’ azione: sorprendentemente si dice che gli Ebrei, ricevendo la legge da Mosè, dicono, prima: «noi faremo» e, poi: «ascolteremo».
Qui la conoscenza per mezzo dell’ascolto della “parola” si svolge ex post, come comprensione dell’ esperienza che si è fatta attraverso l’azione.
Forse si vuol dire che non c’è vera conoscenza se non si fa esperienza e che, anzi, l’esperienza deve precedere la conoscenza. Forse (forse, forse, forse) questo è anche il significato della riflessione sull’inizio del… continua su libertaegiustizia