di Pietro Grasso
Ex magistrato e politico italiano, viene designato giudice a latere nel primo maxiprocesso a Cosa Nostra nell’85 da Francesco Romano, presidente del Tribunale di Palermo.
Cos’è stato il maxiprocesso? Per rispondere al quesito si consideri una stanza blindata con all’interno centoventi faldoni contenenti più di quattrocentomila fogli processuali, quattrocentosettantacinque imputati e quattrocentotrentotto capi di imputazione che comprendono non solo l’associazione per delinquere di tipo mafioso, ma anche tutti i reati contestati a componenti criminali collegati a Cosa Nostra, come estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti e centoventi omicidi. Servono trecentoquarantanove udienze e milletrecentoquattordici interrogatori per permettere, l’11 Dicembre 1986, agli otto membri della Corte d’Assise di ritirarsi in camera di consiglio. La più lunga camera di consiglio della storia giudiziaria, trentacinque giorni al termine della quale, dopo otto mesi, lo stesso Grasso ha steso la sentenza, un documento di circa settemila pagine.
Durante il maxiprocesso Grasso, tra gli altri, collabora fruttuosamente con Falcone ma il loro primo incontro risale al ’79 quando, entrambi giovanissimi, sostituto della Procura di Palermo l’uno e giudice istruttore del Tribunale di Palermo l’altro, seguono insieme il caso di un ciclomotore rubato. Per quanto piccolo possa essere il caso in questione, immediatamente il giovane palermitano proietta la sua attenzione e minuziosità nell’indagine: è il preludio di quello che viene chiamato “metodo Falcone”. Il metodo Falcone è Falcone stesso.
A questo punto viene da chiedersi: “Chi era Giovanni Falcone?” , ed è proprio questa la domanda con cui Pietro Grasso in un capitolo de “ Giovanni Falcone: l’uomo, il giudice, il testimone” snocciola le sue personali memorie del rapporto con Falcone ed in particolare di tutte quelle voci sibilline che più che corridoi hanno abitato beatamente pagine di quotidiani, uffici e tribunali.
Falcone era: la straordinaria capacità lavorativa, il dettaglio, la morbosità, la visione prospettica, l’anticipazione di ogni possibile mossa, l’instancabile voglia di lottare.
Se il Maxiprocesso è il fiore all’occhiello schiusosi nel ’92 è bene tenere a mente, per afferrare tutte queste sfaccettature, l’inchiesta giudiziaria ‘Pizza connection’ chi si svolge negli Stati Uniti d’America ma coinvolge la magistratura italiana e non solo, con indagini sui traffici internazionali di eroina e cocaina che investono la Thailandia, la Sicilia nonché la Svizzera per il riciclaggio di denaro. Falcone garantisce reciprocità nella collaborazione oltreoceano, spulcia ogni singolo movimento bancario e qualunque rapporto di “comparatico”, si sposta dovunque ce ne sia bisogno e tesse la sua trama pronto a disfarla in caso di errori.
Si rincontrano ancora, questa volta a Roma, quando il ministro Martelli accoglie Falcone e lo nomina dirigente dell’ufficio affari penali, dove chiama a lavorare con sé Grasso e compie uno straordinario lavoro per organizzare a livello nazionale la lotta alla mafia, creando la DNA (Direzione Nazionale Antimafia, con relativa banca dati), le DDA (Direzioni Distrettuali Antimafia) e la DIA (una specie di FBI italiana antimafia). Anche questo trasferimento però non viene visto di buon occhio e viene infatti accusato di voler limitare l’autonomia della magistratura e di essere in combutta con il potere politico. Siamo nel ‘90 ma le calunnie e il sabotaggio sembrano partire già dall’88 con la mancata nomina successiva a Caponnetto, la quale viene affidata a Meli basandosi sull’obsoleto criterio dell’anzianità.
Con Meli si dà il via ad un cambiamento che si riflette in primo luogo sulla stabilità del pool, infatti i dirigenti degli uffici interessati nella lotta alla mafia non sono più nominati in modo ‘mirato’ tenendo conto della professionalità e della specializzazione ma i casi vengono distribuiti con il solo obiettivo di spalmarli su quanta più gente possibile per far occupare tutti di indagini mafiose.
Borsellino denuncia questo sfaldamento a cui seguirà l’apertura di un procedimento paradisciplinare contro di lui; siamo nell’89, anno in cui viene accolta la domanda di Falcone per la nomina di procuratore aggiunto a Palermo che non alleggerisce l’aria sempre più pesante il cui massimo punto di rarefazione è l’insinuazione che il fallito attentato dell’Addaura sia stato organizzato da Falcone stesso per farsi pubblicità.
Probabilmente è qui che crolla Giovanni, prima che Falcone, e insieme a sé una stagione fruttuosa del lavoro antimafia, tanto da richiedere dopo l’ennesimo rifiuto una specie di asilo politico-giudiziario a Roma.
Un lavoro che comprendeva magistrati e strutture di polizia giudiziaria specializzate, centralizzate e coordinate, più le intercettazioni telefoniche e soprattutto ambientali, da eventuali infiltrati e dai collaboratori di giustizia.
Crolla quello che in molti chiamano minimizzandolo “metodo”, che lasciava ben poco al caso, e tanto doveva allo studio meticoloso, al lavorio instancabile, addolcito nelle ultime testimonianze da immagini familiari che lo associano ad un sorriso, ad una battuta di spirito, ad una giovialità improvvisa, un misto di gentilezza e severità che lascia un ricordo agrodolce.
Era anche questo, in fondo, che chi lo circondava aveva imparato ad apprezzare: il beverone di Coca-cola e whisky retaggio delle trasferte americane e la minestra della moglie di Grasso che elogiava tanto. Un gusto, un’abitudine, un vizio, una zuppa di broccoli e riso e un bicchiere sul cui fondo solo ghiaccio e qualche pensiero, a sciogliersi insieme.
(sintesi di Annamaria Nuzzolese)