Reggio Emilia – La città del Tricolore e i suoi dintorni provinciali hanno salutato da non troppo, in quest’ultimo mese d’aprile, l’epilogo della manifestazione itinerante NoiControLeMafie: ossia il IX Festival della Legalità, promosso dalla Provincia di Reggio Emilia e dalla Regione Emilia Romagna, per la direzione dello studioso di organizzazioni criminali Antonio Nicaso affiancato da Rosa Frammartino. Fra affollati incontri, dibattiti, proiezioni ed esiti di lavori compiuti coinvolgendo soprattutto scolaresche del territorio, c’è stato spazio anche per alcuni spettacoli di teatro.
Nell’organigramma della meritoria iniziativa, del resto, figurano giusto i nomi di due realtà attive in ambito teatrale: la reggiana Corte Ospitale di Rubiera e l’associazione Caracò dislocata tra Bologna e Napoli. Di quest’ultima, oltretutto, avevamo assistito tempo addietro alla messinscena intitolata Era tuo padre: storia di figli su cui incombe la lontana presenza del moloch paterno, un boss della camorra trasferitosi nell’Italia settentrionale a diversificare le sue sordide attività. In una scenografia di tende veneziane che permettono svelti cambi di situazione, in funzionale dialogo con le variazioni luministiche, si snoda una vicenda famigliare nella quale si divarica la graduale e solitaria presa di coscienza di una giovane in rapporto al male di cui, suo malgrado, è parte. E, però, non necessariamente partecipe. Anzi. Difatti giunge a fare coraggiosa luce su di esso, sino a diradarne le ammorbanti morse oscure sul vivere comunitario che, in quanto essere umano, anche lei contribuisce giocoforza a realizzare e dunque, possibilmente, a schiarire ed elevare. Questa produzione di Caracò s’è vista inoltre nella stagione teatrale della Corte al Teatro Herberia, pressoché a ruota della conclusione del Festival della Legalità. Il quale ha offerto altre pièce della stessa compagine (Santa Napoli di Alessandro Gallo e Le belle parole secondo Isabella Carloni in coproduzione con Rovine Circolari Teatro); oltre a La sentinella recitata da Roberto Greco ricordando la strage di «Capaci e altre storie»; fino a completare la proposta artistica del cartellone con escursioni, tra le altre, nella sfera cinematografica e in quella musicale che hanno stupito, coinvolto e stimolato le platee dei partecipanti, grazie a confronti live e performance.
Mentre nell’alternarsi dei convegni – animati da ordini professionali e figure accademiche, da specchiati giornalisti ed esponenti delle istituzioni e della sicurezza – si sono distinte le terse personalità del direttore Nicaso e del magistrato antimafia Nicola Gratteri. Entrambi consapevoli che, per stroncare il male mafioso, serve un continuo ed espansivo lavoro culturale e di aggregante sensibilizzazione sui temi della legalità: attività tanto utile quanto quelle investigative e delle forze dell’ordine. Perché, a differenza di quel che credono i benpensanti, è piuttosto dalla corruzione culturale che nasce quella materiale e morale, non viceversa. «Quello che ha ricevuto il seme in buona terra» infatti «è colui che ode la parola e la comprende» finché «dà frutto e rende ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta» come ricordano certe righe sapienziali, e quindi senza tempo, sempre contemporanee, quali quelle dell’evangelista Matteo nella Bibbia (13,23).
Quasi ad anticipare significativamente la descritta rassegna, peraltro, pochi giorni prima la Fondazione iTeatri di Reggio Emilia aveva accolto per un week end, nel suo Teatro Ariosto, lo spettacolo Va pensiero: ideato e diretto da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per il loro ensemble del Teatro delle Albe. Creazione approdata nella città, per giunta, natia dello stesso coregista sulla recente scia di una pretestuosa querela inferta ai suoi artefici e fautori, con evidente piglio intimidatorio, da Ermes Coffrini: sindaco, dal 1985 al 2004, del vicino comune di Brescello ovvero il primo sciolto in Emilia Romagna per condizionamenti mafiosi, mentre ne era primo cittadino Coffrini figlio (alias Marcello) nel 2016. E al luogo immortalato da Don Camillo e Peppone, alle sue effettive vicissitudini di criminalità e malaffari emerse negli anni duemila, ha guardato come primaria fonte d’ispirazione la drammaturgia di Martinelli per poi, comunque, trasfigurarsi con inventiva attingendo a un novero ulteriore di analoghi casi, suggestioni e argomenti di molteplice provenienza: tratti da atti e carte di processi, documentati libri e testimonianze, incontri con rigorosi esperti e studiosi.Ma detto ciò, nel paese di Coffrini – tocca, ahimè, leggere nella sua querela – «la mafia non c’è»; in resistibile contrasto cioè con acclarati fatti e l’enormità di condanne, fra rito ordinario e abbreviato, stabilite lo scorso autunno dal processo +Aemilia: il più grande per mafia del nord Italia, avvenuto proprio nel capoluogo reggiano, e in grado di attestare l’ampia presenza maligna dell’ndrangheta nel tessuto sociale ed economico dell’indiziata regione.Si è già scritto, tuttavia, qui su “Rumor(s)cena” ( i precedenti contributi nei link in calce ) di siffatta querelle e anche della messinscena delle Albe. Ciononostante, quest’ultima merita qualche osservazione aggiuntiva riguardo taluni aspetti artistici ed estetici tout court, integrabili appieno alla sua giusta nomea di «spettacolo necessario» che tratta con nitore questioni profonde e scottanti per le sorti della nostra «patria sì bella e perduta».
E dello smarrimento, in effetti, emana dalla stessa pièce fin dall’ingresso del corpo solitario di Ermanna Montanari che, scosso da conati di vomito, fende da sinistra la semioscurità scenica nel fragore sonoro di un boato ventoso squarciante l’anima. È Marco Olivieri ad aver concepito tale sound d’avvio che tornerà in seguito a lacerare l’aria, alternandosi con altre sue musicalità d’elettronica irrequietezza. Dal loro canto, pure le luci disegnate da Fabio Sajiz effondono subito impronte sinistre, oppressive e sanguigne, che si rivedranno nel corso della rappresentazione.
Di lì a breve, il gruppo degli attori compare a declamare all’unisono dei versi d’introduzione alla storia, evocandone in generale il quadro ambientale e l’atmosfera emotiva. Una vicenda di varia umanità irretita tra misfatti e infiltrazioni ’ndranghetiste che, gradualmente, s’insinuano nel vivo di una cittadina emiliana governata da un’astiosa figlia di defunto politico «stalinista» che, dopo averla imposta nel suo partito, l’ha resa «Zarina» dell’alluso paese.
A incarnarla c’è un’Ermanna Montanari superba nel concertare un magma di microtremolii e venose vibrazioni, dal volto agli arti alle mani, che sprigiona la tellurica gamma di arroganze e tetre inclinazioni abitanti tale tenutaria di un potere strumentale a meri personalismi e opzioni opportunistiche. Una recitazione di afflati compressi e, tuttavia, affilata quando s’inerpica corrosiva sulle vette di un infernale (ma quanto veritiero!) assolo al microfono, teso a sondare le nere profondità delle persone in platea; un’implosività fine, eppure capace di scoppiare in un’intemerata che inchioda certi «sfiziosi» superficialismi odierni alla loro vana retorica, strappando l’applauso dell’uditorio colpito dal fuoco di fila delle parole e da una certa sorpresa per tanta dirittura dell’obliqua sindachessa.
Attorno alla primattrice si muove inappuntabile il fluido ventaglio degli altri fulgidi interpreti che si schiude in lungo e in largo per la scena, componendo a vista i diversi set e ambienti in cui si rappresenta la molteplicità di situazioni ed episodi fatti vivere, anche con tocchi di brio e humor, da una congerie di personaggi onesti e no, dalla schiena dritta o meno. I quali intrecciano dialoghi e racconti, cori e soliloqui (con o senza microfono) e altri «a parte», condotti da una regia permeata di dinamismi da film incardinati nel multiplo susseguirsi e convergere – per incastri, giustapposizioni e inanellamenti – dei numerosi passaggi drammatici.
Pertanto ci si ritrova come al cinema in una dimensione d’immersiva scorrevolezza avvolgente sguardi, pensieri ed emozioni che vanno e si liberano: a raccordare con nitida agilità la ricchezza di spunti e allusioni, indizi e ragionamenti, così da inquadrarne al volo i viluppi di correlazioni storiche e argomentative alla base dei nodi malavitosi oggetto di narrazione teatrale.
Merito nondimeno della straordinaria scrittura drammaturgica di Marco Martinelli, puntellata di particelle e accorgimenti che certa critica scambia per lungaggini e superfluità, quando invece stanno lì dove sono per cesellare quel quid di dilatazioni in cui lo spettatore ha un tempo di lucido pensare subitaneo – spiccato e netto – nel pulsante alveo della complessità rappresentata al suo cospetto.
E ad abbracciare tutto questo composito Va pensiero, c’è il Coro lirico Alessandro Bonci di Cesena diretto dal vivo da Stefano Nanni. Una comunità di persone e voci impegnata a cantare una selezione di brani creati dal genio musicale di Giuseppe Verdi, fatti intersecare con lo svolgersi del gioco scenico al fine di espanderne l’assorta carica di sofferta emotività che, sull’ali del canto, trae però resiliente slancio verso un attivo moto di luminoso riscatto. Un’eterea presenza sita sul fondo della scena e trasformata in una partecipativa e incoercibile forza spirituale, grazie all’uso di un velario manovrato dall’alto che la fa trasparire o altrimenti nascondere nell’avvicendarsi di scritte, bagliori e spegnimenti che vi si riverberano sopra. Schermo ove appaiono, perdipiù, translucidi filmati di ribollenti vitalismi e quieti fervori dell’indomita Natura. Come se tali linfe, feconde d’autenticità di vita, fossero ormai altrove da noi; separate e distanti dal nostro cosmo esistenziale d’individui alienati, piuttosto, e schiacciati da invasive brame di specioso lifestyle e arrivismo: indifferenti perciò a chi resta indietro e da parte, sulla spinta dopante dettata dal guadagnare denaro che – in modo diffuso e sterilmente automatico – si persiste a pensare quale unico latore d’invidiabile benessere. Alla faccia della multivoca vastità di degne prospettive e opzioni dell’esistenza.
Ed emoziona, allora, e ridà speranza assistere alla finale avanzata degli attori e dei coristi sull’orizzonte della ribalta per intonare il celebre canto corale che dà il titolo alla messinscena, con il maestro Nanni a condurli al suono di una fisarmonica su cui s’alza una ariosa istanza e comune voce «che ne infonda al patire virtù»; mentre un graduale crescendo luministico si libera nell’intera platea sino al dissolversi docile del canto: consegnato così, come esortativo lascito alla collettività di spettatori o, meglio, «cittadini»; sospinti ora a una più edotta e ampia consapevolezza.
Erompono alfine gli applausi. Scrosciano e vanno doverosi pure al coraggioso Donato Ungaro, presente per l’ennesima volta alla rappresentazione. Infatti, come diversamente accennato, è alla sua reale storia che si è ispirato lo spettacolo. Quella di un vigile urbano del comune di Brescello che, in virtù della sua parallela attività giornalistica, denunciò all’inizio del millennio le criminose penetrazioni ’ndranghetiste che stavano avvenendo proprio nella sua cittadina. Licenziato quindi come poliziotto municipale dallo stesso comune, perché ritenuto “scomodo” e inaffidabile, Ungaro gli ha fatto causa vincendo in seguito ogni grado di giudizio avutosi nell’arco di un tribolato dodicennio e oltre.
Ora Donato non fa più il vigile. Guida gli autobus a Bologna, dove vive, e continua a ricevere minacce. Prosegue però a scrivere come giornalista integerrimo e ad andare, con generosità, nelle scuole e laddove lo chiamano per parlare di legalità e battaglie antimafia. Facendo cultura e sensibilizzando in modo limpido. Lo ammiro con sincerità e ha il mio sostegno. A lui, tutti i giorni, va il mio applauso e grato pensiero.