Rientrando da Cannes senza premio alcuno (dopo avervi partecipato per nove volte volta ed essere stato divisivo in almeno due occasioni: “L’ora di religione” e “Vincere”), Marco Bellocchio offre il suo stratificato, complesso “Traditore” ad un’ampia variabile di approvazioni, entusiasmi o dissensi radicali- ai quali tenteremo di non aggregarci proprio in ragione della prismaticità di un’opera non valutabile con unità di misure manichee o per ‘comodità’ di generi (filmici).
Si inizia, per forza di cose, dall’esposizione dei fatti narrati. Ai quali “occorrono” circa due ore e mezzo (troppi) per dispiegare il suo compito “ evocare una pagina della storia d’Italia, quella che nel corso degli anni Ottanta vede scoppiare una violenta guerra di mafia per il controllo internazionale del traffico di droga”- annota lo stesso Bellocchio, come se avesse scelto (ma non è vero) di rendere omaggio al vecchio cinema di impegno civile.
Stando ai fatti (e alla loro parabola): dal Brasile dove vive gestendo un ‘fiorente’ traffico di droga, Tommaso Buscetta assiste impotente all’uccisione, a Palermo, del fratello e di due suoi figli. Braccato e posto agli arresti dalla polizia di San Paolo, il futuro “boss dei due mondi” viene estradato in Italia, ove decide di incontrare il giudice Giovanni Falcone e di ribellarsi di fatto (dopo i tanti lutti che hanno ammorbato la sua stirpe) alla “degenerazione” di Cosa Nostra- rispetto agli arcaici valori della mafia contadina- diventando con orgoglio guascone il primo, grande pentito di mafia e il più ‘autorevole’ accusatore dei suoi ex sodali.
Nasce così, e per grandi linee (fra massacri e vendette trasversali), quel che venne nominato Maxiprocesso, che vide imputate 475 persone e che, dopo l’attentato a Falcone e alla sua scorta, perpetrato da Totò Riina, spinse Buscetta a coinvolgere ‘intoccabili’ nomi della politica italiana (Giulio Andreotti, il primo), senza però che la sua “influenza” (la morte se lo portò nella primavera del 2000 “nel mio letto”- come desiderava) potesse avere alcuna opportunità di “dire la sua” in quel che poi sarebbe stato quel supplemento di indagini, tossicità, concreti indizi fascicolati nel turpe capitolo della trattativa Stato-Mafia.
Fin qui, e per sommi capi il nucleo del racconto (donde diramano tracce di esecuzioni sommarie, agguati, rese di conti e reazioni a catena): cupo, asciutto, perennemente immerso in quell’emisfero di dormiveglia onirico, di sequenze lievemente sfocate, che sono cifra stilistica del cinema di Bellocchio. Anche nelle sue (presunte) escursioni nel cinema “non strettamente” (auto) analitico, personale, notomizzante traumi e disagi di una condizione che è comunque di sofferta (insofferente) sudditanza: sia nei confronti della Famiglia, sia dello Stato – e di qualsiasi altro ambiente ove si abbatte la spada di Damocle delle Istituzioni: mai neutre, neutrali, al di sopra della parti. Sempre consustanziali (finto rassicuranti) all’esercizio del o dei Poteri, ovunque mistificano e si nascondono.
E quindi, una domanda quasi superflua: come puoi non “odiare” la Mafia se hai a suo tempo (da “I pugni in tasca in poi”) “odiato” ogni nucleo e universo concentrazionario in cui la sopraffazione di annida? Che differenza (sostanziale) passa dalla Piccola Famiglia Perbene di Piacenza alla Grande Famiglia Virulenta agli effimeri Troni di Sangue, annidati e avvicendati da Cosa Nostra?
Questo il punto. Nonostante il realismo, il proscenio, le maschere urticanti del teatro delle apparenze (Palermo, la Sicilia, i suoi ‘onorati’ criminali), quello di Bellocchio è, in primo luogo, un apologo nero, nichilista, totalizzante (quindi, per chi lo ritiene, opinabile, e da cui prendere le distanze): di una condizione umana dissipata sulla galassia epilettica della sopraffazione dell’uomo sull’uomo, dell’ignoranza e della paura asservite alla demagogia e ai dogmi dei Padri. Resta semmai da “confutare” la superficie realista (crudo realismo) di un racconto affastellato ed ellittico, difficile da decifrare nei suoi meandri dai non specialisti del settore (giornalistico, sociologico e quant’altro).
Poiché la disarmata “naturalezza” con cui Bellocchio impressiona e lascia susseguire i suoi ‘fatti e misfatti’ non ha nulla in comune con quanto la tradizione del cinema italiano imprime al piacere\dovere dell’ indagine requisitoria, disvelatrice, accusatrice (da Francesco Rosi a Damiano Damiani, da Carlo Lizzani a Giuseppe Ferrara). Elevandosi -la riluttanza dell’autore- a tutta quella varietà (universale) di “convivenze forzate e ineludibili” in cui non la mafia, ma la sua mentalità (di cui la Sicilia è solo il bubbone incistato, inasportabile, di proscenio) spadroneggiano e decretano sin dalla notte dei tempi. In attesa (ingenua?) che l’inverarsi d’una qualche palingenesi (rossa, messianica, buddista, confuciana…) riscatti dalla servitù l’ uomo in rivolta o il suo impresentabile opposto: il popolo bue.
Ps dal “naturalismo” sghembo e ‘dissacrante’ di Bellocchio, dal suo Leviatano mai saziabile si staccano almeno due sequenze di svagata ironia: quando Buscetta (Pierfrancesco Favino in difficile equilibrio fra mimesi ed istrionismo), dopo il colloquio con Falcone (il sobrio e dolente Russo Alesi) , percorre…in bicicletta… aule e corridoi del Palazzo di giustizia (e dei “veleni”) di Palermo; e quando, tutto ad un tratto, all’interno di un’elegante sartoria appare, smunto e fantasmatico, un ‘canuto’ Giulio Andretti, che Pippo Di Marca, maestro di regia nell’ambito delle avanguardie, interpreta dimesso e pernicioso, senza profferir parola, immoto nello sguardo e frenetico nel memorizzare appunti scritti – difeso dal celebre avv. Coppi (badiale e ‘facondo, secondo Bebo Storti) – nel corso delle udienze dibattimentali (dialogate, come tutto il film, in strettissima lingua palermitana…ma con sottotitoli- ed il solo precedente de “La terra trema” di Visconti)