Il fatto non è molto più che simbolico, ma non perciò meno rilevante. Al contrario, illustra tutta la complessità della crisi venezuelana, contraddizioni, paradossi e ulteriori pericoli. Il suo acuirsi nel cieco rimbalzare da un’impossibilità all’altra dei contendenti. Gli “americani” sono intervenuti a sorpresa nel conflitto. Non sono però i marines promessi da Donald Trump, bensì suoi avversari politici, attivisti pacifisti del gruppo “Pink Code”, soprattutto donne, contrari all’intervento militare nel paese sudamericano e penetrati nella residenza dell’ambasciata venezuelana di Washington, per protesta contro le minacce della Casa Bianca.
La sede è stata infatti abbandonata da tutto il personale diplomatico e amministrativo venezuelano rientrato in patria alla fine del mese scorso, quando il Dipartimento di Stato ha fatto scadere i loro visti di soggiorno. Si tratta di una elegante palazzina di quattro piani nel sobborgo residenziale di Georgetown, di proprietà dello stato venezuelano. A farsene carico in attesa di una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra il governo di Caracas e quello di Washington dovrebbe essere il personale dell’ambasciata svizzera, in quanto paese neutrale. Ma in attesa che lo faccia, i militanti di “Pink Code” vi si sono accampati.
Dicono di voler così impedire più gravi conseguenze. Ritengono che se vi si installasse il rifugiato politico venezuelano Carlos Vecchio, scelto come proprio ambasciatore dal presidente della Camera Juan Guaidó, o peggio l’edificio finisse requisito sia pure provvisoriamente dalle autorità statunitensi, ci sarebbe da aspettarsi conseguenze. A Caracas potrebbero attuare ritorsioni contro l’ambasciata degli Stati Uniti, ciò che offrirebbe al presidente Trump il pretesto per quell’azione militare che continua a far volteggiare minacciosamente sul futuro prossimo del paese sudamericano e di conseguenza coinvolgendo gli stessi cittadini statunitensi.
Nelle ultime ore, però, anche gruppi di giovani venezuelani residenti negli Stati Uniti e seguaci delle opposizioni che circostanzialmente fanno capo a Guaidó si sono mobilitati e picchettano la residenza di Georgetown. C’è stato anche qualche tafferuglio tra le due parti. E il Secret Service che vigila la situazione tutt’attorno alla zona interessata ha compiuto alcuni arresti. Si tratterebbe di attivisti di “Pink Code” che volevano portare cibo e altri generi di conforto ai loro compagni all’interno della palazzina. Gli agenti si astengono infatti dall’entrare nell’edificio e sgombrarlo, per evitare violazioni dello statuto di extraterritorialità di cui godono i luoghi diplomatici: political correttness. Aspettano che sia la fame a far arrendere gli occupanti.
E’ intanto la diplomazia spagnola a riprendere l’iniziativa attraverso il ministro degli Esteri, Josep Borrell, il cui governo ha pur riconosciuto Juan Guaidó quale capo di stato provvisorio, ma adesso dice che Donald Trump e il suo governo agiscono in Venezuela “come cow-boys nel Far West ”. E prende le distanze dal cosiddetto Gruppo di Lima, per dichiarare l’urgente necessità di rafforzare invece il sostegno al Gruppo di Contatto dell’Unione Europea, affinchè le parti aderiscano a una trattativa e a un’accordo che permetta nuove elezioni. A parere di Borrell ci sono gli spazi per una trattativa.
La Spagna ha da decenni interessi commerciali a Cuba cosi come in molti altri paesi latinoamericani e non ha gradito affatto l’intenzione espressa dal vicepresidente Mike Pence di stringere ulteriormente il blocco economico contro l’isola caraibica. L’applicazione integrale della nota legge Helms-Burton da lui invocata per costringere il governo dell’Avana a ritirare i numerosi consiglieri militari che assistono Nicolás Maduro li danneggerebbe. Perciò Madrid ricorrerà se necessario all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). E comunque ritiene opportuno “evitare manifestazioni che rasentano l’intervento militare”.
Borrell aggiunge che il capo di Guaidó, Leopoldo Lopez, attualmente rifugiato nell’ambasciata di Spagna a Caracas, per le leggi spagnole non può ottenere l’asilo. E non si risparmia un monito:”lo stesso nostro riconoscimento di Juan Guaidó come capo di stato provvisorio non è assoluto e definitivo, poiché la diplomazia spagnola non può ignorare indefinitamente che a controllare il territorio, l’amministrazione e le forze armate del Venezuela è in realtà il presidente Nicolás Maduro”. E’ un avvertimento forte e inatteso che sottolinea le distonie tra Stati Uniti e l’Europa.