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Creazione ex nihilo del mondo. ‘Dalla cripta’ di Michele Mari

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Il Milan precedente all’arrivo di Berlusconi fa quasi tenerezza, viene da due stagioni non consecutive in serie B e ha un presidente, Giussy Farina, che nel disperato tentativo di far quadrare i conti arriva ad affittare Milanello per banchetti di nozze. Il 28 ottobre del 1984 si disputa Milan-Inter, derby di andata della stagione ‘84-85: è in quella partita che Mark Hateley, acquistato dal Milan qualche mese prima, con un salto sovrasta di mezzo metro Fulvio Collovati – colui che agli occhi dei tifosi milanisti è diventato “il traditore” perché qualche anno prima ha cambiato sponda pur di salvarsi dalla serie B – e colpendo di testa rifila a Zenga una palla imprendibile. Ma quell’azione memorabile merita di essere raccontata in dettaglio. Quel giorno la prima a segnare è l’Inter di Castagner, grazie ad una prodezza di Altobelli al 10’ del primo tempo. A centrocampo c’è battaglia, poi al 33’ Di Bartolomei pareggia i conti su una combinazione Wilkins-Virdis. Nel secondo tempo il risultato sembra bloccato, e, si sa, un derby che finisce in pareggio è ancor più deludente di un derby perso. Al 18’ però succede qualcosa che nessuno si aspetta. Il pallone è fra i piedi di Altobelli che prova a far ripartire l’azione nerazzurra, Franco Baresi con intervento deciso gli ruba palla e serve Virdis che, giunto sul fondo, calcia a centro area un traversone che trova pronto Hateley. Lo stacco, proprio sul dischetto del rigore, è fulmineo. Collovati prova a saltare, ma Hateley lo precede e lo sovrasta. Zenga si tuffa invano, il pallone centra la rete nell’angolo alto alla sinistra del portiere. È il gol del 2-1, il Milan vince il derby dopo sei anni. Il resto della carriera di Hateley è discontinuo, costellato da infortuni, con un numero di reti segnate che va progressivamente scemando. Ma questo poco importa, da quel 28 ottobre dell’84 Hateley entra per sempre nel cuore dei tifosi milanisti, e anche in quello di Michele Mari che proprio a Mark Wayne Hateley dedica un poema in endecasillabi sciolti, composto fra il 1985 e il 1986, che costituisce il fiore all’occhiello di Dalla cripta, l’antologia poetica che Einaudi ha pubblicato a febbraio di quest’anno e che raccoglie sonetti, canzoni, sestine, componimenti osceni di tipo comico-realistico, il tutto in omaggio alla migliore tradizione poetica italiana con particolare riferimento a numi tutelari quali Dante, Foscolo e Leopardi. A chiudere il libro la traduzione in endecasillabi sciolti del XXIV canto dell’Iliade.

Ci troviamo dunque di fronte a una raccolta molto diversa da Cento poesie d’amore a Ladyhawke, il canzoniere amoroso pubblicato nel 2007 che costituiva, prima di Dalla cripta, l’unico esperimento poetico di Mari. Dalla cripta è un libro che sembra corrispondere maggiormente al suo autore, non solo perché abbraccia un arco cronologico più ampio (dal 1973 al 2017) ma anche perché è più vicino a quelle forme della tradizione che Mari tanto ama. Dalla cripta è una raccolta che potrebbe essere definita auto-antologica. Fermo restando che Mari, quando scrive, è sempre autobiografico (anche quando introduce nel testo personaggi in terza persona, l’impressione che si ha è che faccia comunque parlare delle parti di sé, delle voci che estrae da se stesso e fa materializzare nei personaggi), sembra che negli ultimi anni, attraverso opere quali Asterusher (di cui a fine gennaio è uscita una nuova edizione accresciuta), Leggenda privata, e ora appunto Dalla cripta, Mari stia rendendo ancora più palese ed evidente, più esplicito e immediato, questo suo ininterrotto processo di costruzione di una propria autobiografia letteraria. Si avverte quasi il desiderio da parte sua di voler tirare le somme, fare il bilancio di una vita tutta spesa in funzione della letteratura che a questa vita stessa tanto ha dato, ma forse, anche, tanto ha tolto.

L’Atleide, che di fatto è il cuore pulsante dell’intera raccolta, canta, come si è visto, l’eroe mediocre di un Milan che di certo in quegli anni non brillava, anziché i trionfi dell’epoca di Van Basten e Gullit. Chi conosce Mari non resta stupito da questa scelta, e anche l’epicizzazione della vicenda sembra corrispondere pienamente al suo modo di vivere il calcio, a metà strada fra una battaglia epica e un duello da film western.

Considerando nella sua interezza la produzione letteraria di Mari si potrebbe fare un gioco: quello di far dialogare i suoi libri l’uno con l’altro, stabilendo una rete di rimandi e di corrispondenze. Nel caso specifico Dalla cripta sembra “dialogare” con Fantasmagonia: i sonetti che rimandano al racconto Cecco mette a punto il suo furore, dedicato a Cecco Angiolieri, gli sciolti del Lamento di Gianciotto Malatesta che rinviano al racconto Lo zoppo, ma anche il canto XXIV dell’Iliade che attraverso la figura di Achille richiama alla memoria il Lamento del guerriero, e l’Atleide che per il tema calcistico trasfigurato in termini epici fa venire in mente la conversazione fra Omero e Borges in Grecia – Argentina.

In Dalla cripta Mari è anche poeta d’occasione, e quindi “cortigiano”, attraverso componimenti quali un’anacreontica per le nozze di una coppia di amici e i sonetti che celebrano la nascita delle loro due figlie. Ma vi sono anche versi scritti in circostanze più prosaiche: l’abilitazione all’insegnamento, i collegi docenti, la caldaia Baltur che cessa di funzionare, un’auto che lo pianta in asso lungo la strada… È come se Mari trasfigurasse ogni evento quotidiano e contingente, nobilitandolo attraverso l’aura della letterarietà e dell’antico. Potrebbe essere semplicemente un vezzo, o, molto più probabilmente, l’escamotage che gli permette di vivere meglio il tempo presente.

Emblematico il titolo, secondo l’acclarata consuetudine marista che ci ha abituato a titoli per niente comuni, peculiari e icastici, essi stessi preludio della singolarità di ispirazione e dell’originalità di scrittura che caratterizza questo autore unico nel suo genere. La cripta cui si allude in questo caso è chiaramente da intendersi quale sacrario delle belle lettere, essendo generalmente designato con tale nome il luogo deputato alla conservazione di preziose reliquie: dunque scrigno di inestimabile valore e al contempo tempio dedicato al culto di quella religione laica alla quale Mari si è votato fin dalla più tenera età: la letteratura, e l’eccellenza della sua tradizione.

D’altra parte Mari ha più volte teorizzato l’infungibilità della lingua quotidiana ai fini della produzione letteraria. Lungi dal dare testimonianza linguistica dell’epoca in cui si trova a vivere, lo scrittore deve in un certo qual modo farsi officiante di un rito, quello della scrittura letteraria, utilizzando una lingua che non sia di questo mondo, una lingua inattuale, addirittura morta, ad ogni modo sottratta a qualsiasi forma di contingenza: una lingua desueta che torni in vita solo per permettere alla pura letterarietà di esprimersi. Sia la prosa che il verso si dispiegano pertanto mediante un lessico altamente stilizzato, ricco di arcaismi, di modi sintattici desueti, di voci peregrine. È un lusso che può concedersi soltanto colui che sappia muoversi con piena disinvoltura lungo l’intero arco diacronico della nostra storia letteraria, attingendo alle varie forme della lingua come se fossero sincrone. Un lusso che appartiene di diritto a Michele Mari, il quale ne ha fatto il suo tratto distintivo. E poco importa se una parte della critica fino a non molto tempo fa bollasse una tale altissima formalizzazione stilistica per freddezza emotiva. La verità è un’altra: quanto più Mari è autentico, quanto più sente il bisogno di dire cose personali, private, urgenti nell’ansia di essere comunicate, a volte imbarazzanti o impudiche per il loro contenuto, tanto più è necessario per lui cristallizzarle in una forma alta. È quello che accade anche in questo libro, ennesima riprova di come la scrittura di Mari sappia mimeticamente aderire alla lingua letteraria dei secoli passati, dal Medioevo all’Ottocento. Dalla cripta potrebbe dunque essere accusato di manierismo, come se il manierismo, la letteratura che attinge a se stessa, alle proprie forme più eccellenti, alla propria migliore tradizione, la letteratura che si presenta come tautologicamente letteraria e in quanto tale che esalta se stessa, fosse da biasimare, da tacciare di debolezza o di inutilità. Come se il manierismo fosse maniera alla portata di tutti. Come se la denominazione di manierista fosse per Mari un marchio d’infamia invece che un punto d’onore. Ma davvero la letteratura deve essere engangée per essere forte? E veramente la forza è un valore necessario alla letteratura? Se lo è chiesto anche Mari e la risposta che si è dato non lascia spazio a ripensamenti:

«Non c’è dubbio che, se forte è la letteratura che misurandosi con la realtà miri, riflettendola criticamente, a modificarla, allora saranno forti la letteratura engagée e quella al servizio di un massimo sistema; quella che afferma perentoriamente o che perentoriamente nega; quella in cui un popolo si riconosce ma anche quella che lacera l’orizzonte delle acquiescenze e degli automatismi: fortissime dunque le avanguardie di ogni età e i grandi realisti, fortissimi Omero e Manzoni, Dante, Orwell, Rousseau. Lo stigma della debolezza perterrà allora ai fautori di una letteratura femminea (perché nata per partenogenesi da se stessa), una letteratura di parole più che di cose, fatalmente portata a dialogare con il passato più che con il presente e il futuro, e con i libri più che con gli uomini: debolissimi dunque Tasso e Callimaco, Vincenzo Monti e il cavalier Marino, Ovidio e Queneau: più debole di tutti, inetto paguro chiuso nella sua biblioteca, Borges. Se però si considera che non ad altro si riferiscono le qualità della forza e della debolezza se non alla letteratura, si dovrebbe giungere alla conclusione opposta, e cioè che la letteratura è tanto più forte quanto più essa è tautologicamente letteraria (come la pietra più petrosa, la scimmia più scimmiesca, il gas più gassoso): quale scrittura letterariamente più forte della dannunziana, ad esempio, in virtù di un senso religioso della forma sonora, o più forte della manganelliana, sorretta dall’aspirazione a essere il mondo dopo averlo creato ex nihilo? […] Non vedo come l’autenticità o la necessità o appunto la forza di un testo letterario debbano essere inversamente proporzionali alla sua artificiosità, alla sua inattualità, alla sua difficoltà, alla sua aristocraticità, alla quantità e complessità delle sue mediazioni. Al contrario, la storia della letteratura offre numerosissimi esempi di scritture che proprio attraverso la maniera riescono, e riescono mirabilmente, a fare i conti con la serietà della vita e con il suo corredo di temi massimi. Da questo punto di vista il minimalismo, inteso correttamente come mimesi di una realtà minima o conoscibile attraverso esperienze minime, è una scorciatoia: e lo è proprio perché evita il conflitto. Rassegnandosi e accontentandosi, il minimalista abdica; ma i personaggi della tragedia classica non abdicavano: si trafiggevano sulla loro spada. E trafiggersi sulla propria spada, per uno scrittore, significa subirsi fino in fondo».


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