di Tommaso Bedini Crescimanni
Mi ricordo di mia zia seduta su una panchina fatta di maioliche nella casa di campagna immersa nel verde sulle colline vicino a Corleone dove ogni anno lei e i miei nonni andavano a trascorrere l’estate. Quando si metteva a sedere lì, in quell’angolo sul lato della villetta, sulle maioliche che provenivano dalla casa del marito, lo faceva per pensare e per ricordare.
Ricordare quell’uomo che per così poco tempo era stato il suo secondo marito, quell’uomo gentile, alla mano, gioviale. Mia cugina si ricorda ancora che quando era una bambina Ugo la veniva a prendere nella nostra casa di campagna insieme al figlio Dario per portarla a fare una passeggiata a cavallo nelle campagne corleonesi: “Maria, mi sto portando la bambina” diceva a sua nonna. In casa non si parlava mai di quello che era successo il 26 gennaio 1978, nove anni prima che nascessi, si facevano accenni ma meglio evitare, soprattutto quando c’era la zia. Crescendo ho capito e la scoperta mi ha sconvolto: Ugo era stato ucciso sotto casa mentre rientrava, aveva suonato il campanello della casa in via Cammarata a Corleone e mia zia stava andando ad aprire. Non fece in tempo. Sentì gli spari, qualcuno gridare, le si gelò il sangue, aveva già capito cos’era successo. La mafia aveva colpito la famiglia una seconda volta: nel ’45, infatti, la stessa sorte era toccata allo zio Liborio Ansalone, ucciso sotto casa proprio come Ugo.
Quando iniziai a domandare chi fosse Ugo Triolo la prima risposta che ricevetti fu: “una persona perbene”. Un’ovvietà, pensavo, chi viene ucciso dalla mafia di solito è una persona perbene. In questo caso la cosa non era affatto scontata. Sì perché la mafia, dopo aver chiuso la bocca all’avvocato vice pretore onorario di Prizzi da vivo, cercò di chiudergliela anche da morto: i motivi dell’omicidio non erano chiari, il movente non si trovava, tanto meno l’esecutore materiale.
Tutto era avvolto in quella nebbia che la mafia fa calare quando non vuole che qualcuno venga ricordato. Le voci iniziarono a girare nella cittadina dell’Alto Belìce: chi diceva che era un omicidio d’onore, che l’avvocato Triolo aveva qualche relazione clandestina, chi diceva che, invece, l’avvocato era un membro della mafia corleonese che aveva sgarrato e per questo era stato punito. Un giornalista coraggioso si recò per primo sul posto, ascoltò mia zia, raccolse le testimonianze. Si chiamava Mario Francese e non sapeva che proprio il 26 gennaio dell’anno successivo la stessa sorte sarebbe toccata anche a lui.
Sull’omicidio calò il sipario fino al 2003, quando l’allora sindaco di Corleone Giuseppe Cipriani, chiese alla magistratura di riaprire il caso e il gip di Caltanissetta Giovanbattista Tona sentenziò: Ugo Triolo è una vittima della mafia.
Il provvedimento che finalmente restituiva dignità a Ugo e ai suoi figli Dario e Fabrizia, identificava negli esecutori e nei mandanti Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Antonino Marchese e Giovanni Vallone: “il vice pretore onorario viene eliminato nel periodo in cui più sfrenata e arrogante si era fatta la violenza dei liggiani per affermare la supremazia sul territorio […] era di un certo prestigio a Corleone, era un proprietario terriero, apparteneva a una famiglia di grossi possidenti e di professionisti, svolgeva il ruolo di magistrato onorario e come avvocato poteva essere nel paese il destinatario di richieste di consigli, anche non solo legali”.
Già anni prima il pentito Giuseppe Di Cristina dichiarò di fronte a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino che gli assassini di Ugo Triolo erano Riina e Provenzano ma determinanti furono le dichiarazioni del pentito Francesco Di Carlo: “ero presente negli uffici della società di trasporti di via Leonardo Da Vinci quando Vallone chiese a Bernardo Provenzano di eliminare Triolo perché lo aveva ostacolato in alcune vicende collegate a reati edilizi da lui valutati nella veste di vice pretore”. Oltre a questo, Ugo era stato pm in un processo che vedeva Luciano Liggio imputato e aveva una grossa proprietà vicino Corleone che faceva gola a molti. Il figlio Dario mi raccontò che suo padre da un po’ di tempo era strano: “un giorno eravamo in macchina insieme e mio padre vide nello specchietto un uomo su una moto, lo vidi spaventato”.
Lo scorso anno, la commissione straordinaria che reggeva il Comune di Corleone ha voluto ricordare Ugo intitolandogli la sala conferenze della ex chiesa di Sant’Andrea, suscitando le critiche strumentali e le invidie di alcuni che non fanno onore alla cittadina.
Ugo Triolo fa parte di quelle vittime poco note che hanno combattuto il cancro della mafia facendo semplicemente il proprio mestiere, senza clamore, sacrificando la propria vita e dimostrando che nello stesso territorio che ha sviluppato la malattia, Corleone, ci sono stati anche dei corleonesi onesti che la malattia l’anno combattuta fino alla fine.