Delle carceri in Italia non si parla quasi più. Un “buco nero”, lo definisce il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà, Mauro Palma, perché sugli istituti di pena e chi vi sta dentro la politica tace. Al di là di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, che visione abbiamo del carcere e della pena? Le segrete medievali del Nome della Rosa, della Santa Inquisizione e di altri capitoli di storia più bui fanno davvero parte del passato? La «precrimine» del film (e del romanzo) Minority Report è solo una distopia fantascientifica? Il carcere serve veramente oppure no? E il reinserimento sociale e lavorativo è possibile?
Mentre qualcosa si muove sul piano delle iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica – tra manifestazioni e incontri dentro e fuori le mura circondariali, libri e festival (l’VIII Premio di scrittura per detenuti, intitolato alla scrittrice siciliana Goliarda Sapienza, si conclude al Salone del libro di Torino il 9 maggio con Edoardo Albinati, Erri De Luca e Patrizion Gonnella, presidente di Antigone) – proviamo a farci un’idea dello stato delle patrie galere.
***
Al primo posto tra le criticità denunciate nella relazione tenuta al Parlamento dal Garante nazionale il 27 marzo scorso, c’è l’aumento del numero dei suicidi (64 nel 2018 rispetto ai 50 dell’anno precedente). L’età media delle persone detenute che si sono uccise è di 37 anni (la persona più giovane, che si è data la morte nella Casa circondariale di Udine, ne aveva 18, quella più anziana, nella Casa circondariale di Grosseto, 66). Dei detenuti suicidi 32 erano italiani (30 uomini e 2 donne) e 32 stranieri (30 uomini e 2 donne). Nell’anno in corso le cose non vanno meglio: nei primi tre mesi sono già 10 le persone che si sono tolte la vita, circa una a settimana.
Preoccupa poi il sovraffollamento, questione su cui tiene alta l’attenzione il mondo dell’associazionismo (Antigone e Luca Coscioni in testa), oltre che i Radicali italiani che effettuano ispezioni periodiche tra le mura degli istituti di pena. Malgrado «l’inevitabile disagio che ne discende», la crescita dei suicidi non è però ad esso correlata: la causa, a detta di Palma, va ricercata «in un clima generale che nega la soggettività alle persone detenute, diffondendo un senso di sfiducia nel riconoscimento dell’appartenenza al contesto sociale».
All’inizio dello scorso anno i carcerati erano circa 58.500, mentre ora sono quasi 60mila (di cui circa diecimila in attesa di giudizio), a fronte di una capienza di poco più di 50.500 posti. Nello stesso periodo, tuttavia, il numero di persone finite in cella è diminuito: sono 887 in meno. L’aumento non è quindi ascrivibile ai maggiori ingressi, bensì a una minore possibilità di uscita. Un dato che, spiega Palma, «deve far riflettere perché può essere determinato da più fattori: l’accentuata debolezza sociale delle persone detenute che non le rende in grado di accedere a misure alternative alla detenzione, per scarsa conoscenza o difficile supporto legale; la mancanza soggettiva di quelle connotazioni che rassicurino il magistrato nell’adozione di tali misure; o, infine, un’attenuazione della cultura che vedeva proprio nel graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento».
Le pene alternative (come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e il lavoro volontario di pubblica utilità) non devono peraltro essere intese come un mero escamotage per alleggerire il numero dei detenuti tra le mura (e di conseguenza i costi per i contribuenti, che per ogni carcerato sostengono una spesa pari a circa 136 euro al giorno, secondo i dati dell’ultimo rapporto di Antigone), ma piuttosto come uno strumento per preparare il rientro alla vita sociale. Tra le persone che hanno avuto accesso a pene alternative, infatti, la recidiva una volta fuori dal carcere è ben più bassa che tra coloro che non vi hanno avuto accesso (rispettivamente 19 e 70 per cento). E a chi invoca la costruzione di nuovi penitenziari è bene ricordare un particolare: edificare un carcere da circa 200-250 posti, ossia di media grandezza, richiede una spesa compresa tra i 25 e i 35 milioni di euro.
Tra le emergenze, oltre alla cronica mancanza di personale penitenziario, c’è anche carenza di quello medico tanto che, a fronte di un aumento dei detenuti, è difficile assicurare un servizio di assistenza sanitaria adeguato, come denuncia Franco Alberti, coordinatore nazionale di Fimmg Medicina Penitenziaria: «I medici che lavorano nelle carceri sono costretti a turni continuativi, con tutti i rischi connessi alla situazione di stress legata all’ambiente di lavoro. Tutto ciò a scapito della salute dei detenuti».
Preoccupazione è stata espressa anche dal capo della Polizia, Franco Gabrielli, per i processi di radicalizzazione estremista in ambito carcerario, un focus su cui è rivolta l’attenzione degli apparati di sicurezza. Nel Report Terrorismo, criminalità e contrabbando della Fondazione Icsa, Gabrielli sostiene che sia «per il terrorismo endogeno, che per quello internazionale di matrice religiosa, l’habitat penitenziario si sta dimostrando un incubatore». Ciò significa che i detenuti più esposti ai condizionamenti possono divenire terreno fertile per lo jihadismo.
La situazione carceraria italiana, del resto, è stata definita “drammatica” dallo stesso ministro Bonafede, che ha segnalato 3.808 eventi critici (tra cui rivolte, aggressioni, colluttazioni). Mentre il Garante, da parte sua, ha precisato come in alcune sezioni di 41 bis (il carcere duro) le condizioni materiali siano inaccettabili. In Italia, sono sottoposti a questo regime 738 uomini, dieci donne e cinque internati in Case di Lavoro: a gennaio scorso solo 363 di loro e appena quattro delle 10 donne avevano una posizione giuridica definitiva.
Una condizione allarmante certificata anche a livello internazionale: il Rapporto Space, diffuso il 2 aprile scorso, fotografa la situazione del sistema penitenziario negli Stati membri del Consiglio d’Europa al 31 gennaio del 2018. Dal documento risulta che in Italia ci sono troppi detenuti in attesa di un primo giudizio o di una sentenza definitiva (il 34,5% contro una media europea del 22,4%), le nostre carceri sono tra le più affollate del continente e il nostro Paese è tra quelli con la più alta percentuale di persone condannate per reati legati alla droga: 31,1 % rispetto a una media europea del 16,8 %. Dai dati Space emerge inoltre che per ogni 100 posti disponibili nelle carceri italiane ci sono 115 detenuti e che tra il 2016 e il 2018 la popolazione carceraria italiana è aumentata del 7,5%. Tra gli otto Stati con carceri sovraffollate, l’Italia è al quarto posto, dopo la Francia (116,3 detenuti per ogni 100 posti), la Romania (120,3) e la Macedonia del Nord (122,3).
***
«La cella è lunga quattro passi e larga un paio di braccia tese. Se mi alzo in punta di piedi tocco il soffitto. È uno spazio a misura d’uomo. A misura mia». Così Maurizio Torchio nel romanzo Cattivi (Einaudi, 2015), in cui racconta la storia di un ergastolano. Comunque le si voglia chiamare – segrete, galere, gattabuie, bagni penali, penitenziari – le carceri sono carceri, ossia spazi di solitudine ben delimitati, dove si sperimenta una restrizione fisica, sociale, economica e psicologica. Elevare le condizioni di vita negli istituti di pena, come ha dichiarato il presidente della Camera Roberto Fico, in occasione della relazione di Garante, «non è un atto di indulgenza verso chi ha commesso reati, ma serve a restituire alla società una persona migliore rispetto a quella che ha fatto il suo ingresso in carcere, un antidoto per prevenire che torni a delinquere». Oltretutto circa 450 minori sono reclusi negli Istituti Penitenziari (IPM) d’Italia in attesa di uscirne.
Sul divieto di tortura e dei trattamenti degradanti il nostro Paese non ha neppure ottemperato pienamente gli obblighi costituzionali e internazionali: la Corte di Giustizia Europea, infatti, aveva condannato l’Italia per violazione dei diritti umani dopo la sentenza Torreggiani (8 gennaio 2013). Perfino Papa Bergoglio ha sottolineato come «per la società i detenuti sono individui scomodi, uno scarto, un peso». Ne fanno esperienza quotidiana i cappellani nelle carceri.
In definitiva si tratta di mettere in pratica l’articolo 27 della nostra Costituzione che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per restare uomini e donne al di qua e al di là delle sbarre.