Fu durante la lavorazione di Le notti di Cabiria che avvenne l’incontro cruciale. Anna era una signora charmant di qualche anno maggiore di lui, alla quale Fellini restò legato per tutta la vita in una sorta di ideale matrimonio parallelo. Di lei Federico diceva che aveva le gambe più belle che mai avesse visto. Nell’aspetto ricordava l’attrice Caterina Boratto, quel tipo di donna sontuosa, scenografica, da cui il regista era molto attratto. Anna mi raccontò il loro incontro fatale in una conversazione registrata che si svolse nel suo appartamento:
«Abitavo in una strada presso Ruschena e quindi la mattina, uscendo di casa, mi fermavo nella pasticceria per fare colazione con il caffè e le brioche. Ogni mattina passavo in quel bar per poi proseguire verso l’abitazione di una infermiera dove andavo a farmi fare le endovenose per una cura ricostituente. Un giorno c’era nel locale un bell’uomo, alto, che vedendomi mi aveva indirizzato molti complimenti con segni della testa e degli occhi. Quando sono uscita era lì fuori ad attendermi e mi chiese se poteva accompagnarmi. Mentre mi incamminavo a piedi, lui era andato a prendere la macchina, una grossa Chevrolet. Io intanto avevo attraversato il ponte e mi ero infilata in un vicoletto dove si trovava il mio calzolaio, e uscendo dalla botteguccia avevo trovato la sua auto che occupava tutto il vicolo; mi aveva incastrato non permettendomi di uscire dalla porta. Indossavo un tailleurino di cotone a fiori gialli, senza maniche, con dei sandali bianchi non troppo alti sui tacchi. In testa avevo uno chignon, con un bel fiocco nero. Non avevo scampo: lui aveva fatto una leggera marcia indietro, in modo che la portiera della macchina fosse proprio alla mia altezza ed ero salita, dal momento che, scherzando, non mi lasciava alternative.
Invece di accompagnarmi a casa, però, aveva proseguito fuori Roma prendendo la Salaria. Ci siamo fermati in un punto dove si vedeva una centrale elettrica e c’era una grande quercia, immensa. Era molto galante, mi aveva baciato la mano e, curiosissimo, voleva sapere tutto di me. Mi ha chiesto come mi chiamavo, e dissi “Anna”. A mia volta ho chiesto il suo nome, ma dalla sua risposta avevo capito Enrico e ho continuato a chiamarlo così per un po’. Finché lui mi ha corretto: “Non Enrico, Federico! Sono Federico Fellini.” Il nome non mi diceva nulla, fin quando non mi confidò di essere un regista e che tra i film che aveva realizzato c’era anche La Strada. La Strada! L’avevo vista sette volte! Ero innamorata di quella storia, e lui si rallegrò moltissimo del mio entusiasmo. Mi chiese se potevamo rivederci il giorno dopo: “Che cosa fa domani?” Risposi che mi recavo come ogni mattina a Piazza dei Cinquecento per una cura che stavo seguendo. Il giorno dopo, quando sono scesa dal mio appartamento in via Calamatta, alle undici, l’ho trovato lì davanti al portone con la sua Chevrolet. Mentre mi aspettava aveva occupato il tempo a prendere informazioni su di me, interrogando il portiere, e aveva saputo che vivevo da sola con mia figlia, di pochi anni. Mi ha accompagnata a fare l’iniezione, e poiché la cura era di dieci fiale e ne avevo fatte soltanto tre, per le sette rimanenti aveva sempre voluto accompagnarmi lui, presentandosi ogni mattina con dei doni, fiori, cioccolatini, scatole di bonbon. Piano piano mi sono innamorata di lui. Abbiamo cominciato a uscire la sera. Finché un giorno, venendo a prendermi, mi ha regalato un anello d’oro a forma di serpente che aveva per occhi due rubini rossi.
Una volta è salito anche in casa, dove io affittavo un paio di stanze a un criminologo, che era il padre di Nanni Loy. Federico non sopportava di star lontano da me, e mi raccontava che quando ci separavamo lui tornando a casa abbracciava le tende e le baciava, tanto gli mancavo. Però non sapeva baciare. Lo faceva a labbra strette, come avrebbe fatto Andreotti. Io glielo avevo detto e lui aveva risposto che forse non aveva le labbra adatte. “Non è vero – gli ho spiegato – basta saperle adoperare”. E alla fine era diventato più bravo di me. Mi desiderava molto, rappresentavo per lui il genere di donna di cui era appassionato, alta, vita stretta, e seni grandi senza reggipetto, perché allora per farli risaltare si indossava il bustier. Ma non era un campione nel fare l’amore, come tutti gli uomini che vanno con tante donne. Per fare l’amore bene bisogna sapersi dedicare a una soltanto e non disperdersi fra mille avventure fugaci che non ti permettono di conoscere a fondo e di apprezzare la creatura che hai al fianco.»
Fellini in un periodo in cui Giulietta si trovava in Spagna, le prestava l’auto della moglie:
«Una bella macchina azzurra, che si scopriva, non ricordo più che marca fosse. Poi, prima del ritorno della legittima proprietaria, la riportava nella villa di Fregene.»
Il regista faceva di queste cose, mischiava, confondeva, se c’erano in ballo due donne voleva vivere l’una nell’altra. Ad Anna piacevano molto le automobili, si divertiva a guidare e ne aveva avute di svariate; mi elencava modelli a me ignoti: la 9, per esempio. O altri rinomati della sua epoca, la 1100, la 1300, e anche auto sportive. Amava la velocità – «perché sono un sagittario, mi spiegava Federico» – e in gioventù, quando era fidanzata a Trento con un ricco avvocato, andava anche in motocicletta. Aveva una Guzzi, e il facoltoso avvocato ne possedeva una anche lui, di cilindrata maggiore, più potente. Appena comprata lei aveva voluto provarla, ma in una curva era andata a finire contro due buoi che tiravano un carro: «Mi ero infilata proprio in mezzo ai due animali ed ero stata sbalzata nella campagna senza farmi troppo male per fortuna. Solo i vestiti si erano strappati lasciandomi nudo il petto – era estate – dove mi ero sbucciata la pelle. Avevo escoriazioni anche sui palmi delle mani. Il padre dell’avvocato aveva dovuto comprare la bestia azzoppata e farla macellare, riempiendone poi un grande frigorifero che avevano in casa.»
Racconti di un’epoca lontana, svanita nelle immagini profumate dei calendarietti del barbiere.
Anna era di origine altoatesina e aveva avuto una vita piuttosto avventurosa, assediata dai corteggiatori. Poi con l’arrivo di Fellini era stata costretta per amore a scegliere un’esistenza riservata, a ritrarsi nell’ombra. Con lei Federico era stato molto prodigo ma anche molto possessivo; dopo averla praticamente costretta a lasciare la persona con la quale si frequentava al momento del loro incontro, aveva in seguito cercato di isolarla in una prigione dorata da cui non potesse evadere. Anche perché sembra ne fosse gelosissimo. Anna mi riferì che un giorno, entrando nell’appartamento di via Lima, aveva visto un grosso fascio di rose rosse sul tavolo del soggiorno, omaggio di un insistente ammiratore, e accecato dalla collera aveva preso il vaso gettandolo insieme ai fiori fuori dalla finestra senza neppure accertarsi che in strada non passasse nessuno.
Nei disegni Federico a volte la raffigurava con vezzose ‘lunette’ che rendevano il suo sembiante ancora più incantevole, nella direzione delle donne che chiamava le “pavoncelle“, dalla testa minuscola e regale sopra un corpo morbido, sinuoso, prorompente. Forse gli occhialetti definivano ancor meglio il ruolo della ‘farmacista’ che lui le aveva assegnato. Nei primi anni della loro relazione, preoccupato che la giovane donna si annoiasse nelle lunghe attese, e forse anche sollecito del suo futuro, le aveva intestato una farmacia in grado di assicurarle un’attività remunerativa e di assecondarne anche la singolare propensione verso il campo medico sanitario. Per un certo periodo Anna se n’era anche occupata, vi andava ogni giorno e rimaneva qualche ora alla cassa: una cassiera alla Assia Noris, da commedia sentimentale, con i capelli raccolti dietro la nuca, la pelle di magnolia, gli occhi velati da una resa segreta, da un cedevole abbandono che le lenti maliziose esaltavano invece di schermare.
Poi il capriccio era presto svanito. Anna non era fatta per lavorare, le sue giornate si dipanavano tra stilisti, antiquari, parrucchieri, estetisti, acquisti d’arredamento, vacanze eleganti in luoghi esclusivi. Rievocava volentieri, con un guizzo di vanità, la fuoriserie azzurra, una Fiat 1500 Osca Cabriolet, che il regista le aveva regalato solo per poterle sedere accanto e guardarla guidare, ammirato, mentre il vento le sfiorava i capelli. Percorrevano strade preferibilmente fuori mano, si dirigevano verso luoghi in cui era più facile mantenere l’anonimato, o quantomeno ci fosse una remota eventualità di essere riconosciuti.
Anna aveva una figlia che si chiamava Patrizia ed era piccina quando iniziò la storia con Federico. Il regista le era assai legato. Appena poteva caricava madre e figlia sulla sua auto e le portava a fare delle gite fuori porta; ricolmava la bambina di doni, pasticcini, giocattoli, era molto affettuoso. Anna per proteggere quella relazione irregolare aveva accettato di ritirarsi nell’ombra, rinunciare a ogni mondanità e condurre un’esistenza da clandestina. Che non escludeva parentesi romantiche, allegre escursioni insieme in altre città. Una volta con vezzoso narcisismo mi mostrò la Polaroid che Federico le aveva scattato a Venezia in una camera dell’Hotel Danieli; era riflessa nuda, a mezzo busto, in uno specchio dalla cornice dorata.
Le occasioni per ritagliarsi degli spazi di coppia non erano frequenti, data la popolarità di del regista; il quale però non mancava mai di andarle a far visita, anche ogni giorno se era a Roma, nell’appartamento spazioso di via Lima che aveva acquistato e fatto arredare per lei, sui suoi gusti. Era il loro rifugio segreto, il loro buen retiro; Federico le portava da leggere i copioni che gli venivano inviati dai produttori, e richiedeva il suo parere. Era la sua amata Paciocca.
Quel ruolo da seconda moglie senza diritti regolari, l’amante prediletta condannata a consumare una vita da comparsa, sempre pronta a soddisfare il riposo del guerriero ma mai a figurargli al fianco ufficialmente, se da un lato aveva assecondato la sua indole avventurosa, appagato la fantasia un po’ trasgressiva da eroina di romanzo, dall’altro l’aveva condotta a sviluppare una sorda rivalità, mai apertamente ammessa né ostentata, nei confronti di Giulietta; la quale per giunta era una attrice famosa, amata in tutto il mondo, riverita e venerata dal pubblico al pari di una santa.
Anna non le portava vero rancore; alla fine aveva accettato senza lamentarsi una vita di carezze, di doni, di brevi incontri divoranti, trattata come un idolo nel tabernacolo, curata e coccolata. Pur tuttavia nella sua voce sottile da bambina, leggermente nasale, si avvertiva un’incancellabile malinconia, come spiasse il mondo tra le sbarre di una gabbia. Era sempre informatissima, al corrente di tutto ciò che accadeva nell’ambiente dello spettacolo, aggiornata sulla cronaca mondana, intelligente e acuta nei giudizi. Leggeva moltissimo e la sua libreria era affollata di volumi con la dedica degli autori, che Fellini riceveva in dono e deponeva nelle sue mani bianche, affusolate, curatissime.
Ogni tanto, complici i paparazzi che a Roma, dopo La Dolce Vita, erano alleati incorruttibili del regista e mai gli avrebbero fatto lo sgarbo di inviare ai giornali una fotografia a lui non gradita, uscivano a pranzo o a cena, preferibilmente dalla Cesarina, in via Piemonte o in altri ristoranti romani di accertata riservatezza. Le sortite si erano diradate negli anni Ottanta, poiché Anna aveva cominciato a soffrire di problemi alle gambe; era stata anche operata in una clinica di Sondalo da un chirurgo considerato il luminare delle ginocchia, Max Maggi, presto diventato buon amico di entrambi. Tuttavia la situazione stentava a migliorare; e negli ultimi tempi Anna non usciva quasi più. Aspettava Federico in casa, conducendo una vita languorosa, da signora borghese che aveva rinunciato alla propria autonomia per amore; una condizione che faceva inviperire la figlia, la quale diventando adulta aveva accumulato rancore e biasimo nei confronti del finto padre, trasformandosi da bambina adorante in acerrima nemica. Un atteggiamento che addolorava la madre, turbata, amareggiata dalla discordia fra i due.
(CONTINUA)