Venticinque anni senza la classe, la passione, la tenacia e il coraggio di Agostino Di Bartolomei, capitano della Roma del secondo scudetto, targata Liedholm, e campione umile, proveniente dalla periferia, da Tor Marancia per l’esatezza, dove si allenava calciando per terra per indurre i muscoli delle gambe e accrescere la potenza del tiro.
Ago dal cuore grande e dalla testa dura, maledettamente bravo, fottutamente orgoglioso, purtroppo convinto che il fatto di possedere una pistola lo avrebbe reso più sicuro, salvo trasformarsi, quel dannato 30 maggio del ’94, nell’arma con cui avrebbe deciso di porre fine ai suoi giorni, a soli trentanove anni.
Un campione ingenuo, questo era Di Bartolomei, dove ingenuo non è certo un termine usato in senso spregiativo, sspecie se si considera la stima che tutti noi nutriamo nei confronti di uno straordinario protagonista dello sport e della nostra vita pubblica.
Ago, che a differenza di ciò che cantava De Gregori, ebbe paura di continuare a condurre un’esistenza che evidentemente non sentiva più sua, stremato dal progressivo imbarbarimento di un ambiente che non sentiva più sua e che, non a caso, lo aveva escluso, si tolse la vita esattamente dieci anni dopo quella tremenda finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, persa all’Olimpico da una squadra e da una città mai fino in fondo convinte delle proprie incredibili potenzialità.
Ago cadde, quella notte di trentacinque anni fa, e con lui cadde un mondo che impiegò quasi vent’anni prima di tornare a credere in se stesso e a vincere qualcosa di importante.
Lui già non c’era più da sette anni, quando, nel 2001, i giallorossi conquistarono il loro terzo e finora ultimo scudetto, restituendo una gioia bambina e immacolata a una città molto cinica per quanto riguarda le questioni politiche ma incredibilmente fragile, illusa e pura quando si tratta dell’epica contemporanea che dà un senso alla felicità delle masse.
Ago era tanto popolare e gladiatorio in campo quanto timido, schivo, riservato, abituato a portare la propria croce in silenzio e a soffrire senza clamore fuori, lontano dai riflettori, solitario per scelta e del tutto estraneo all’immagine del calciatore glamour che già allora cominciava ad affermarsi e che ormai è considerata naturale, pur non essendolo affatto.
Ago, così umano e dolente, così vero, sincero, autentico, così romano e romanista da rifiutare il Milan da ragazzo, salvo poi essere costretto a trasferirvisi all’apice della carriera poiché non rientrava più nei piani della Roma di Eriksson, così incapace di perdonarsi e di chiedere qualcosa, meno che mai aiuto ai pochi amici che aveva. Uno sparo, poi il buio, l’addio e l’amara sensazione che non fosse possibile salvarlo, in quanto non è possibile opporsi alla ferrea volontà di un uomo, al tempo stesso, forte e fragilissimo, gravato dal peso della sua mortale immensità.