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Torre Maura e il ritorno del termine “nomadi” per indicare i rom

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Il caso del trasferimento di circa 60 persone nel centro di accoglienza raccontato dai media fa tornare d’uso comune una parola rimossa dalla Strategia nazionale e nei documenti del Campidoglio dall’allora sindaco Marino. Stasolla (21 luglio): “Parole che richiamano fantasmi del passato”

 

ROMA – “‘Zingari, dovete morire di fame’. Grida e proteste contro i nomadi a Roma”. Titolava così, nei giorni scorsi, un quotidiano a tiratura nazionale agli arbori delle proteste scoppiate in questi giorni a Torre Maura, quartiere periferico di Roma, per via del trasferimento di circa 60 persone in un centro di accoglienza, provenienti da altre strutture, alcuni dallo sgombero di Camping River o da altri insediamenti informali della capitale. La cronaca sulle diverse testate giornalistiche, così, ha fatto tornare tra i titoli, in maniera dirompente, parole che non si leggevano così spesso da tempo. “Zingari”, “nomadi” e le relative proteste “anti-nomadi”: sono questi i termini maggiormente utilizzati e sebbene la parola “zingari” venga riportata sempre nei virgolettati attribuiti ai manifestati, la parola “nomade” sembra tornare in voga nel linguaggio giornalistico. Basta fare un giro online per notare che tra agenzie, quotidiani e portali di notizie, sono tutti d’accordo: si tratta di “nomadi”.

Il ritorno dei “nomadi”. L’apice dell’utilizzo del termine “nomade” a livello istituzionale, probabilmente, è stato il 2009, anno di presentazione del noto “Piano nomadi” voluto dall’allora ministro dell’Interno del governo Berlusconi, Roberto Maroni. Negli anni successivi, il dibattito suscitato sulla corretta terminologia da utilizzare è stato importante, tanto da lasciare il segno in diversi documenti. Basta citare la Strategia nazionale per l’inclusione dei rom, sinti e caminanti del 2012 che al suo interno riporta quanto segue: “È ormai superata la vecchia concezione, che associava a tali comunità, l’esclusiva connotazione del “nomadismo”, termine superato sia da un punto di vista linguistico che culturale e che peraltro non fotografa correttamente la situazione attuale”. Sulla scia della Strategia nazionale si è mosso anche il predecessore di Virginia Raggi, ovvero il sindaco di Roma dal 2013 al 2015, Ignazio Marino. Con una circolare del 2014, infatti, ha vietato, l’uso del termine “nomadi” in tutti gli atti del Comune. “Uno dei fattori centrali per superare le discriminazioni sia quello culturale, affinché l’approccio metodologico di tipo emergenziale possa essere abbandonato a favore di politiche capaci di perseguire l’obiettivo dell’integrazione – si leggeva nella circolare firmata da Marino – . Devo registrare come, nel linguaggio comune, le comunità Rom, Sinti e Caminanti vengano impropriamente indicate con il termine di ‘nomadi’. Per questo motivo chiedo che d’ora in poi – nelle espressioni della comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi – in luogo del riferimento al termine ‘nomadi’ sia più correttamente utilizzato quello di Rom, Sinti e Caminanti”. Per Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio, il ritorno di alcuni termini nel linguaggio comune “richiamano tutti i fantasmi del passato, dall’emergenza nomadi fino alla zingara rapitrice – spiega. Per tanti elementi, come la militarizzazione nei campi, il decreto Salvini e gli sgomberi forzati in aumento, sembra di essere alle porte di un’emergenza nomadi. Ci sono tutte le premesse. Qualcuno, forse, sta soffiando sul fuoco perché si arrivi a dichiarare una nuova emergenza”. 


Un dibattito acceso.
Che la questione sia complessa ce lo dimostrano i tanti contributi al dibattito acceso negli anni della Strategia nazionale. Per citarne uno, è rimasto celebre il botta e risposta a mezzo stampa tra Guido Ceronetti, filosofo e scrittore recentemente scomparso, e Federico Faloppa, docente di linguistica all’università di Reading, in Gran Bretagna. Su un articolo pubblicato da La Repubblica del 2014, Ceronetti entrava a gamba tesa sul tema chiedendo di mettere un punto all’utilizzo dilagante del termine “rom”, preferendo “zingari”. “Posso ziganeggiare a lungo, rivoltando letture e memorie – scriveva Ceronetti -, e provare che il termine rom, volendo designare una comunità zingara, è del tutto inutilizzabile. È improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua”. Di diversa opinione Faloppa, che in un articolo sul Fatto Quotidiano criticava la posizione di Ceronetti. “Da anni, ormai, rom è infatti entrato, a pieno diritto – essendo un cosiddetto “etnonimo” (anzi, più propriamente un autònimo), un nome di popolo usato da parte di quel popolo stesso per autodesignarsi – nel linguaggio non solo giornalistico e giuridico, ma anche in molti casi nell’uso quotidiano. Perché voler sollevare un polverone, ora, e dire: bando alle ipocrisie e agli utilizzi illegittimi (illegittimi per chi?), si torni a zingaro?”, chiedeva Faloppa, che aggiungeva: “La sensazione è che si faccia un gran parlare di rom anche quando non ce ne sarebbe il bisogno”, puntualizzando che, alla fine, “i problemi legati agli zingari sono ben altri, e riguardano soprattutto gli atti di razzismo che questi devono costantemente subire”.“Zingaro” ieri e oggi. L’uso della parola “zingaro”, invece, è una faccenda più spinosa. Quel termine gridato dai manifestati a Torre Maura con tono dispregiativo, non è stato sempre considerato tale. Lo ha usato il Vaticano, ad esempio, nella sua “pastorale per gli zingari”, ma è un termine utilizzato anche all’interno delle stesse comunità, come si capisce bene dal nome di un’associazione nata a Torino negli anni 70 e ancora oggi attiva, ovvero l’Associazione italiana zingari oggi Onlus (Aizo) composta, si legge sul loro sito web, da “sinti e gagè (non zingari)”. Se guardiamo agli anni 70, però, è doveroso fare anche un’altra puntualizzazione. Nemmeno il termine “nomadi” aveva una connotazione così negativa come può averla oggi. Anche in questo caso è il nome di un’organizzazione non profit che porta in grembo proprio il termine oggi in discussione, ovvero l’Opera nomadi. Nata negli anni 70, oggi un po’ nell’ombra, l’Opera nomadi è l’unica realtà ad occuparsi di queste comunità che ha avuto il riconoscimento ufficiale ad ente morale nazionale con decreto del Presidente della Repubblica 347/1970. Oggi, tuttavia, il termine “zingaro” racconta qualcosa di diverso e nasconde una paura, troppo spesso strumentalizzata.“Oggi l’antiziganismo è sorpassato da quella che viene definita aporofobia – spiega Stasolla -, ovvero la paura del povero, soprattutto del povero urbano. Il termine zingaro, così, è riferito più ad una condizione di marginalità, di povertà e di degrado che ad una fetta di popolazione. È ormai un’etichetta con cui si indica l’emarginato sociale, il povero”.


Cosa dice Carta di Roma.
Nelle ultime linee guida, pubblicate a fine 2018 dall’Associazione Carta di Roma, ecco una riflessione sugli stessi termini usati sui media in questi giorni. Il termine “zingari”, spiega la guida,  viene percepito dalle comunità rom e sinti “perlopiù come offensivo”. “È un eteronimo imposto dalla società maggioritaria a un gruppo che non si autodefinisce così – spiega la guida -. Nonostante ciò, zingari è ancora molto usato a ogni livello, dalla lingua parlata nella quotidianità, al discorso pubblico e politico. Anche se i termini corretti – come rom e sinti – sono oggi più presenti all’interno dei media di quanto non fossero in passato, zingari compare ancora di frequente in gran parte di essi, che spesso non sono coscienti della connotazione peggiorativa assunta da questo termine, equiparabile sempre più a un insulto razziale come negro”. Il termine “nomadi”, invece, viene citato come il “maggior stereotipo”, che tra l’altro, ha “condotto alla creazione di politiche istituzionali scorrette”. “Spesso capita che la “teoria del nomadismo” venga usata ancora oggi al fine di fornire una forma di legittimazione culturale alla marginalizzazione di rom e sinti all’interno dei campi – aggiunge la guida -. Un effetto perverso di questo uso scorretto è la derivazione “campi nomadi”, che fa pensare a luoghi adatti a gruppi umani che si spostano continuamente e quindi a una forma di insediamento tipica di quelle popolazioni e in qualche modo necessaria. Non è così. Solo una piccola parte dei sinti e dei rom residenti in Italia (il 3 per cento) non è sedentariae perlopiù per via dell’occupazione in lavori stagionali. Parlare di nomadi e campi nomadi è quindi improprio e fuorviante, ha esiti discriminatori nella percezione comune e conferma una serie di pregiudizi diffusi in particolare nella società italiana”.(ga)Dai “campi nomadi” alle baraccopoli. E infatti, è proprio l’etichetta applicata agli insediamenti abitativi a Roma e non solo, ad alimentare un dibattito in seno alle amministrazioni locali che porterà le stesse a trovare nomi alternativi per indicare quelli che venivano inizialmente chiamati campi “nomadi” e poi campi rom. Ed così che si è cominciato a parlare di “campi attrezzati” e “villaggi della solidarietà”. Ancora oggi, però, spesso vengono chiamati “campi nomadi”. Per questo, l’associazione 21 luglio da qualche anno sta portando avanti una campagna silenziosa affinché venga superata anche la definizione “campi rom”. Lo spiegano nell’ultimo rapporto presentato martedì 9 aprile in Senato. “La definizione più appropriata per indicare gli insediamenti formali e informali della Capitale è quella dell’Agenzia delle Nazioni unite Un-Habitat, che definisce come baraccopoli un insediamento in cui gli abitanti non hanno sicurezza di possesso, dove le abitazioni risultano estromesse dai principali servizi base, dove le abitazioni non risultano conformi ai criteri stabiliti dai regolamenti comunali o situate in aree pericolose dal punto di vista geografico e ambientale”. Per questo motivo, spiega Stasolla, “nell’ultimo rapporto sui matrimoni precoci che abbiamo realizzato abbiamo tolto la parola rom e probabilmente, nel prossimo rapporto annuale, toglieremo la parola rom e lo dedicheremo a tutte le baraccopoli presenti in Italia, per parlare solo di baraccopoli e non più di rom”.

Da redattoresociale


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