Portato per sua natura – libera e romagnola – a denunciare ogni mistificazione, Fellini girò sequenze incendiarie contro l’imbroglio della religione. Rimangono memorabili il pellegrinaggio al santuario del Divino Amore ne Le Notti di Cabiria, o la notte del ’miracolo’ di La Dolce Vita, nelle quali inscenò con vigorosa felicità narrativa, sia la malafede che può nascondersi dietro la strumentalizzazione del soprannaturale, sia, in controcanto, il confuso, irrinunciabile desiderio di purezza e di redenzione presente nell’animo di ogni essere umano.
Federico era una delle persone più aperte alla dimensione spirituale fra quante abbia mai incontrate, spontaneamente incline al mistero, al prodigio, alla gratitudine francescana per ogni manifestazione e dono dell’esistenza. Sicuramente proteso verso il trascendente e sempre pronto, nel solco dell’insegnamento cristiano, a spendersi nei confronti chi aveva bisogno. I suoi set erano un autentico rifugio per i tanti emarginati e diseredati del durissimo mondo dello spettacolo. Il suo era un cattolicesimo ‘fisiologico’:
«Come avrei potuto, nascendo in Italia, scegliere un’altra religione che non sia quella cattolica?
Mi piacciono la sua coreografia, le sue rappresentazioni immutabili e ipnotiche, le preziose messe in scena, i lugubri canti, il catechismo, l’elezione del nuovo pontefice, il grandioso apparato mortuario.
Provo un sentimento di gratitudine per tutte le ammaccature, le oscurità, i tabù che hanno costituito un immenso materiale dialettico, le premesse di ribellioni vivificanti, e il tentativo di liberarsi da tutto questo dà un senso alla vita.»
Dopo il successo planetario di Otto e mezzo, il film dei film, che consacrava Fellini a genio della cinematografia mondiale, Oriana Fallaci non si fece sfuggire l’occasione di un ruvido “faccia a faccia” con il personaggio tanto osannato. La giornalista teneva su L’Europeo una rubrica di interviste alquanto survoltate, intitolate Gli Antipatici; lo stuzzicò, lo circuì, lo pungolò, ne ottenne risposte eloquenti. Il regista parlando del protagonista del suo film aveva asserito:
«Guido è la vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda.»
Il Pontefice in questione era Angelo Roncalli, Giovanni XXIII detto il Papa Buono. Oriana, incurante, assesta la stoccata:
“Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?”
La risposta è fulminea, irritata:
«Certamente, ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con sé stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiede aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine. Io volevo dire soltanto che non capisco come una possa non pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto… il mistero che ci circonda e diventa chiarore…»
Quando Federico si ammalò, e dopo la degenza a Rimini fu ricoverato nell’Ospedale San Giorgio di Ferrara, il Cardinale Achille Silvestrini si presentò nella sua stanza e rimase più di un’ora a parlare con lui. La visita del Principe della Chiesa non passò inosservata e si sparse immediatamente la notizia, non si sa da chi propagata, di una clamorosa conversione del cineasta. Ci fu gran rumore sulla stampa, nonostante fosse risaputa la consuetudine instaurata da tempo da Giulietta e Federico con l’alto porporato di Brisighella, amico di Sergio Zavoli e presidente a Roma di Villa Nazareth, collegio universitario di alto profilo. L’indiscrezione era stata ripresa con fantasiosa disinvoltura da giornali e notiziari TV. Federico si limitava a scuotere la testa; tutto quel chiasso attorno a lui gli appariva eccessivo, sproporzionato, lo infastidiva. Ebbe una reazione di stizza: “Conversione da cosa? Sono mai stato un musulmano?”
Vittorio Monti del Corriere della Sera si era affrettato al suo capezzale:
«Ha avuto mai paura di morire?»
«Sì, quando il mio amico Titta Benzi, convinto materialista, e inesauribile bestemmiatore, mi ha detto, dopo aver tirato un paio di moccoli: “Federico, lo sai che ho pregato per te?” In quel momento ho avuto paura.»
«Maestro, anche lei ha pregato? Che cos’è per lei la preghiera?»
«Un modo molto razionale e intelligente di deporre a terra un bagaglio pesantissimo e affidare a qualcun altro il peso delle angosce e dei dubbi.»
«Qualcuno ha parlato di “conversione”: ha mai pensato a Dio?»
«E’ possibile non pensarci?»
La dimensione dell’Altrove era una costante della sua inesauribile curiosità. Una volta replicò a Zavoli che gli si rivolgeva oppresso da una vertigine da vuoto: “Non sei curioso di sapere cosa trovi?”
Durante il ricovero a Ferrara, un prete giornalista gli inviò una specie di ‘questionario’ per il suo bollettino parrocchiale; in uno dei quesiti cercava conferma alla visione di una religione cattolica pervasa di ironia. Fellini se ne stupì con me:
«Non l’ho mai saputo; come può sostenerlo? Basta guardare quell’abbacchietto lassù! – E indicava il piccolo Crocifisso appeso sulla parete di fronte al letto; – l’ironia può far parte delle religioni orientali, forse è presente nella grande mitologia greca, ma è impossibile rintracciarla in una trascendenza che si identifica con un sacrificio così disumano.»
In virtù di quella semplice parola, abbacchietto, rivolta familiarmente a Gesù, l’Agnus Dei, mi sembrò di comprendere d’un tratto il mistero della religione cattolica più a fondo di quanto la comune dottrina non fosse riuscita a trasmettermi. Quando mi misi alla macchina da scrivere per fermare le sue parole, Federico, stanco, si era già assopito.
Non va dimenticato che nella carriera di Fellini ci furono anche incursioni artistiche verso l’ignoto. Ma si arrestarono sulla soglia di un ormai celebre viaggio, quello del violoncellista G. Mastorna che perisce in un incidente aereo sconfinando, senza accorgersi, nel regno dei defunti.
Durante la preparazione del film una grave e improvvisa malattia ridusse il regista quasi in fin di vita e in seguito Federico accantonò quel progetto pericoloso. Non fu soltanto superstizione, come sbrigativamente venne etichettato il suo ripensamento; superstizione e magia al pari dell’inconscio e dell’inspiegabile, erano parte del suo inesausto contatto con lo spirito eterno, il divino, l’ultrafanico.
La ricerca di una risposta apparteneva a una tensione ineliminabile della sua personalità inquieta, e accadde che nel suo infallibile raggio di attenzione entrò un giorno anche Luigi Di Liegro, il leggendario direttore della Caritas diocesana di Roma, nominato da Giovanni Paolo II e dal 1982 Prelato d’Onore di Sua Santità.
Fellini, lo vide in televisione senza sapere chi fosse e rimase riverberato da quel “prete meridionale che possedeva il tono e la faccia di un santo”; un uomo così intriso di Dio da riuscire a sfidare ogni giorno l’inferno metropolitano sostenuto soltanto dall’incrollabile abnegazione e carità cristiana. Riteneva che un religioso di quel genere, avrebbe potuto fornirci una chiave, e forse la parola illuminante, per addentrarci nel progetto a cui stavamo lavorando, un film sull’Inferno di Dante.
Mi incaricò di rintracciare il sacerdote. Era il mese di maggio del 1989, lo cercai, andai a incontrarlo in sua vece nella canonica di Piazza San Polo. Arrivai nel primo pomeriggio di un sabato, sotto un nubifragio, a dispetto della buona stagione. Rivedo l’ingresso buio dell’umile dimora, una scala ripida che saliva al piano superiore; fui accolto in una stanza spoglia simile al parlatorio di un carcere, un tavolo, quattro sedie, il Crocefisso appeso alla parete in fondo. Ci trattenemmo a colloquio per più di un’ora e Di Liegro mi parlò dell’inferno e dei dannati della terra. Poi sbobinai l’intervista e la affidai a Fellini che la lesse d’un fiato, mi telefonò alle undici di sera per dirmi quanto ne fosse stato turbato. Il testo finì nella cartellina su cui era stato scritto di suo pugno il titolo del film. Non so dove sia finita; però da un vecchio floppy disk ormai fuori uso ho recuperato la trascrizione di alcuni brani di quella preziosa conversazione.
Mons. Luigi Di Liegro era originario di Gaeta (paese laziale, ma per secoli appartenente al Regno Borbonico), ultimo di una famiglia poverissima di dodici figli; intransigentemente ligio alla consegna della povertà, come riteneva che dovessero essere tutti i servi del Signore.
Coloro che continuano ancora a supporre che Federico fosse un agnostico o un miscredente, poco hanno frequentato l’animo e la poetica del regista, il cui valore spirituale sarebbe da collocare assai in alto fra gli artisti del secolo scorso.
Turbolento era invece il rapporto verso la Chiesa che lo aveva osteggiato con ingiustificabili censure ma che nonostante tutto esercitava su di lui un’innegabile attrazione:
«La Chiesa cattolica con quella sua profonda conoscenza dell’animo umano, ha trattato giustamente gli artisti come bambini, da una parte stimolando la loro creatività con doni e ricompense, affinché testimoniassero con il loro talento la gloria dei suoi santi, dei suoi martiri, dei suoi miti, ma nello stesso tempo alimentando implacabilmente il sentimento di colpa che prova l’artista verso un lavoro che non ha un’immediata utilità, e una vita fuori dalla regola, insidiata da potenze oscure che ti portano a commettere violazioni contro il lecito, il legittimo, il comandamento, e l’ordine delle convenzioni.
Debbo anche aggiungere che, forse per un ricordo ancestrale, c’è in me un’abbagliata attrazione verso la Chiesa cattolica che è stata la più straordinaria creatrice di artisti, una madre severa, committente vigile e generosa di capolavori esclusivi.
Mi rendo conto che è un po’ ridicolo immaginare De Laurentiis in paramenti cardinalizi, eppure mi piace pensare che i produttori, così come gli editori, hanno ereditato immeritatamente una specie di investitura, e che il destino dell’artista è quello di vivere col pane del granduca, del principe e del papa.
C’è un tipo di artista che vuole vivere la sua libertà dentro i limiti stabiliti dalla committenza, anche perché in tal modo può sentirsi sollevato dai sensi di colpa dipingendo, per esempio, un crocifisso.
Il contratto che io firmo con un produttore è per me il sostituto della veste bianca del papa…»