Sergio Leone, l’immortalità

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Perché molti continuano a ripetere che Sergio Leone se ne sia andato trent’anni fa quando è ancora qui fra noi? Certo, ci mancano il suo genio, il suo caratteraccio burbero, la sua follia creativa, la sua inventiva, la sua travolgente forza d’animo e il suo coraggio nel rivoluzionare tutto, ma i suoi capolavori sono rimasti, intatti nella loro meraviglia.
Sergio Leone quest’anno avrebbe compiuto novant’anni e chissà quante altre pellicole immortali ci avrebbe regalato se trent’anni fa non fosse stato stroncato da uno stupido e maledetto attacco cardiaco, in grado di privarci di un mito assoluto ma, al contempo, di eternarlo, candidandosi a sopravvivere ai decenni e forse persino ai secoli, consegnandolo alle future generazioni in tutta la sua grandezza e la sua potenza innovativa.

Inutile star qui a riflettere su cosa abbiano rappresentato per il cinema i suoi “spaghetti western”, talmente perfetti e rivoluzionari da far sembrare obsoleti, e di gran lunga inferiori, i maestri americani che avevano inventato il genere per celebrare la propria epopea.
Inutile star qui a sottolineare quanto la narrazione autentica di Leone, mondata dei fronzoli retorici e della prosopea a stelle e strisce, abbia restituito all’espansionismo yankee le sue vere dimensioni, dissacrando l’epopea di John Wayne e delle guerre conto gli indiani intese come un qualcosa di epico e di assolutamente positivo, quando invece costituirono uno sterminio o qualcosa di simile, peraltro costellato di barbarie e massacri.
Nella Trilogia del dollaro si colgono gli aspetti più negativi della Guerra di secessione, le falsità legate al mito della frontiera, il vero volto dei pionieri e le innumerevoli contraddizioni di una Nazione tanto grande quanto, talvolta, maledetta. La stessa America che per Leone sarà una sorta di ossessione, fino al capolavoro assoluto di “C’era una volta in America”, con  la narrazione realistica del proibizionismo e della sua assurdità, della Grande Depressione e dell’infinita corruzione del dopoguerra, al netto dei racconti da copertina, delle costruzioni sceniche e dei racconti enfatici che nulla hanno a che spartire con un ambiente che è sempre stato una vasca di squali e nel quale ha sempre avuto un ruolo preponderante il Dio in biglietti verdi.

Sergio Leone ha amato e odiato l’America così profondamente da immortalarla in un affresco corale che ha abbracciato due secoli, guidandoci alla scoperta della bellezza e dell’abisso di un Paese strano, controverso, difficile da interpretare e pressoché impossibile da capire anche per chi ci vive.
Ha ribaltato la logica degli anni Cinquanta, non si è piegato all’esaltazions superficiale del mito senza nei, ha scrutato in profondità un universo difficile e ce lo ha restituito nella sua interezza, lasciando che le note del suo grande amico Ennio Morricone ci accompagnassero in questi viaggi al centro di un sistema che ci ha sempre affascinato proprio perché non lo abbiamo mai compreso e che continuerà ad affascinarci  proprio perché indecifrabile, mutevole, sempre diverso e disposto davanti ai nostri occhi come i frammenti di un caleidoscopio che rendono ogni volta un’immagine diversa, benché possa ingannarci apparendoci simile alla precedente.
Leone ha conosciuto l’America e le sue stranezze, ce l’ha fatta amare e, al tempo stesso, ci ha messo in guardia sui suoi pericoli e su come sarebbe giusto confrontarsi con essa.
E parlando della Nazione egemone si è rivolto a tutta l’umanità, restituendoci un quadro sconfortante e meraviglioso, poliedrico, incerto, inquieto, sofferente, magico e tragico al tempo stesso, ricco di poesia e di strazio, pervaso dalla sofferenza e a tratti esaltante. In poche parole, attraverso i suoi personaggi, ha sconfitto il bianco e nero e qualsivoglia forma di manicheismo e ci ha portato a contatto con la vita, vivendo a sua volta intensamente dal primo all’ultimo giorno. Per questo è eterno e ovunque amatissimo.


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