Ricordo bene quella stanza spoglia con due brande, un tavolino e una sedia. La luce arrivava da un’unica finestra con le inferriate. Ricordo bene i pochi libri e una radiolina nera sul tavolino. Ricordo bene gli occhi tristi e l’aria smarrita di padre Isaia Bellomi, missionario dei Padri Bianchi (o Missionari d’Africa), costretto agli arresti domiciliari in quella camera-prigione nel vescovado di Kibungo, nel sud-est del paese. L’accusa: genocidio.
Raggiungemmo quel luogo il 18 settembre 1995, un anno dopo il genocidio consumatosi nella terra delle “mille colline” tra aprile e luglio 1994. I numeri delle vittime della follia ruandese tuttora danzano macabri tra gli 800mila e 1 milione di morti. In tre, tutti freelance, arrivammo a Kibungo: il fotoreporter Romano Siciliani, la collega Federica Margaritora ed io. Già da diversi giorni eravamo in Ruanda, ma a nessuno rivelammo che era nostra intenzione raggiungere padre Bellomi, il religioso nato a Caravaggio, in provincia di Bergamo, dal 1947 in Ruanda, il quale da poco aveva compiuto 74 anni in quella stanza.
“Di che cosa è ritenuto colpevole?”, gli chiedemmo per sentire dalla sua voce cosa avesse da dire riguardo all’accusa di istigazione al genocidio. Fu immediata la risposta di quell’omone con i capelli bianchi, la classica barbetta da missionario e un tau francescano pendente su una camicia bianca macchiettata di blu: “Dicevano che trasportavo sulla mia camionetta alcuni miliziani hutu responsabili del massacro contri tutsi. Ma io portavo solo i miei operai, tutti muratori, alla parrocchia che stavamo costruendo a Kirehe, nel Sud-Est del Ruanda. Dicevano che durante le omelie domenicali affermavo che non è peccato uccidere i tutsi. Guardate un po’ voi se è possibile che un religioso possa arrivare a questo…”. E poi aggiunse: “Se poi le accuse si riferiscono ai tempi del genocidio, allora sono ancora più assurde perché in quel periodo lasciai il Ruanda insieme a 300mila fuggiaschi. Raggiungemmo la Tanzania e da lì rientrai in Italia, dove lavorai sempre per aiutare il Ruanda. Se c’è da fare un processo, lo facciano subito! Sono pronto, perché sono innocente!”.
Lasciammo la camera-prigione di Kibungo con un’inquietudine sollecitata soprattutto da una domanda di padre Bellomi: “Ma in Italia si parla del mio caso?”. Al nostro ritorno, l’intervista a padre Isaia Bellomi, corredata con foto, fu pubblicata in esclusiva da Famiglia Cristiana con il titolo: “Colpevole di carità”. Il settimanale Epoca lanciò la campagna “Liberate padre Isaia”, alla quale si aggiunse Famiglia Cristiana. Ci fu una grande mobilitazione da parte di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, tra cui Enzo Biagi, Sergio Zavoli, Norberto Bobbio, il card. Ersilio Tonini e l’allora presidente del Senato Carlo Scognamiglio, che riempirono un coupon da ritagliare sui due settimanali, sul quale c’era scritto: “Chiedo che il Governo ruandese rilasci padre Isaia, in arresto da cinque mesi con accuse assolutamente infondate. Padre Isaia ha 74 anni ed è ammalato. La sua unica colpa è di essere sempre stato dalla parte dei bisognosi. Non dovete dimenticarvi di lui”.
L’appello fu raccolto dal Governo e dal Parlamento italiano, che si attivarono per riportare a casa il missionario alla fine di aprile 1996, dopo 10 mesi di arresti domiciliari.
Non rividi più padre Isaia Bellomi. Qualche anno fa un suo confratello mi disse della sua morte avvenuta nel 2011, a quasi 90 anni di età. Era in Italia, non più nel suo Ruanda. Nella testa rividi quel viaggio nei Paesi dei Grandi Laghi africani: Burundi e appunto Ruanda, dove le strade erano piene di posti di blocco sorvegliati da bambini soldato dagli occhi spiritati che indossavano residui di divise militari della Germania dell’Est. Ripensai al nostro incontro con padre Bellomi, all’intervista in quella camera-prigione, agli effetti della pubblicazione e alla campagna per liberarlo e portarlo in Italia. Nessuna accusa ai suoi danni fu mai provata. E pensare che per diverse persone, anche italiane e senza mai aver mai sentito la versione di padre Bellomi, quel missionario era già colpevole.
Questa storia da sola può confortare i miei 31 anni di giornalismo. E da sola rievoca ogni momento del Triduo Pasquale impresso nella vita di un missionario o di una missionaria che si schierano dalla parte del più debole di turno. Il tradimento subìto con le false accuse, il pianto, lo smarrimento, il boccone amaro, l’agonia, le mani legate, un legno che piega le spalle, la salita pesante di un calvario, la tentazione umana di sentirsi abbandonati nell’attesa, la morte civile, una pietra pesante sul proprio corpo inerme e la prospettiva di una luce che fa risorgere: ognuno di questi momenti, infatti, si rinnova continuamente nella vita di chi si consacra ai poveri e ai perseguitati. E forse si rinnova anche nella vita professionale del giornalista che osa e si spinge oltre il visibile.
* Articolo e foto tratti dal sito Ucsu