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NINO ROTA (dodicesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Nello spettacolo teatrale intitolato “L’amico magico”, che insieme a Milena Vukotic e Angela Annese abbiamo dedicato a Nino Rota nel centenario dalla nascita (2011), era riportata nel testo in gran risalto la celebre affermazione di Fellini:

«Il collaboratore più prezioso di tutti, posso rispondere senza riflettere, era Nino Rota. Tra noi c’è stata subito un’intesa piena, totale, fin da Lo Sceicco Bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo ero un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso.»

Il regista sosteneva inoltre, in privato, che Nino quando veniva chiamato ad assistere alla proiezione della copia lavoro per cominciare a ideare la musica, dopo le prime sequenze quasi sempre si addormentava. Pertanto spesso non conosceva la trama del film, non ricordava i personaggi, le situazioni, le scene, i dialoghi. Ma non gli servivano; era entrato in contatto con lo spirito nascosto dell’opera, ne aveva assimilato ciò di cui aveva bisogno, e i temi musicali sarebbero sgorgati da soli con estrema aderenza alla storia. Di più, le sue melodie possedevano la prerogativa di ‘rivelare’ l’essenza profonda della trama anche all’autore stesso del film, il quale confessava di percepire le zone d’ombra di ciò che aveva girato soltanto dopo aver ascoltato la musica che Nino aveva inventato per lui. Rota esprimeva dunque l’inesprimibile. E ne era ben consapevole se a sua volta aveva candidamente ammesso in un celebre documentario di Mario Monicelli: “A volte non comprendevo neppure la storia che Fellini aveva narrato, fino a quando non avevo composto la musica. Allora tutto mi appariva chiaro.”

Federico mi parlava di Rota come di una creatura fatata, di un essere sovrannaturale, e si divertiva ad arricchire il ritratto con aneddoti che ne descrivevano la natura svagata, risucchiata in un altrove ignoto, un mondo parallelo, arcano, dove non avevano posto i modesti problemi dell’esistenza quotidiana: “Mi domando come sia in grado di prendere un treno, di rispettare un orario, eppure è sempre puntualissimo; arriva in stazione, monta sul primo vagone che incontra ed è esattamente quello che lo condurrà a destinazione a Milano, a Bari, a Roma, a Torino, dovunque sia diretto, per una coincidenza che lascia trasparire contorni paranormali.”

Riferiva episodi esilaranti sulla leggendaria distrazione di Nino. Sembra che sedendosi al pianoforte Rota perdesse ogni cognizione della realtà: se squillava il telefono reagiva con un meccanico “Avanti!”, come suonassero alla porta; oppure accettava l’offerta di una sigaretta che però non accendeva, non avendo mai fumato. Per Federico il geniale compositore era un essere semidivino che non avresti saputo a quale gerarchia angelica assegnare, se ai Serafini, ai Troni o ai Cherubini. Nino assicurava la protezione metafisica al regista, era il suo “amico magico”. Forse appariva ai suoi occhi anche lievemente irreale, sempre sul punto di svanire, di dissolversi, come un personaggio delle fiabe; e a nessun altra persona di mia conoscenza Federico riservava una simile concentrazione di affetto, di sospesa gioiosa tenerezza, di autentica dedizione. Adottava nei suoi confronti un atteggiamento addirittura materno; quando l’amico durante l’estate si fermava qualche volta a cena nella villa di Fregene, e accettava di restare a dormire, Fellini prima di coricarsi passava dalla sua stanza a rimboccargli le coperte, a dargli il bacio della buona notte. Quasi incredulo dell’immensa fortuna di ospitare sotto il suo tetto un prodigio vivente, anzi la portentosa materializzazione, sotto fattezze umane, di una propria sommersa facoltà psichica. Rota rappresentava semplicemente “la musica”, il tramite capace di condensare in quel linguaggio incorporeo tutto ciò che non era esprimibile né con le parole né con le immagini. Era l’araldo delle armonie iperuraniche di cui discettavano Dante e San Tommaso. Le note che sapeva combinare con tanta sapienza per i film di Fellini, costituivano agli occhi del regista la riprova inconfutabile della sua natura ultraterrena. Le loro due menti erano in una simbiosi così perfetta, che Fellini – lo ammetteva – provava a tratti l’impressione di essere stato egli stesso a concepire quei motivi. Rota rivestiva di sostanza sonora le sue fantasie visive e non era azzardato supporre che fosse il suo corpo astrale in campo musicale; a dimostrazione che l’arte dispone di messaggeri alati a cui affida le proprie imperscrutabili alchimie. Nulla di più plausibile per Federico:

«Fra tutte le fasi di lavorazione del film ce n’è una che è la più desiderata, un vero momento di festa: la creazione della colonna musicale, l’incisione. Con Nino posso passare giornate intere, ad ascoltarlo al pianoforte nel tentativo di precisare un motivo, di chiarire una frase musicale in modo che coincida il più esattamente possibile con il sentimento, l’emozione che desidero esprimere in quella sequenza.»

Rota si lasciava assorbire in una sorta di trance, e la sua musica diventava la filigrana di contenuti ineffabili. Per lavorare i due amici si vedevano in piazza delle Coppelle, dove Nino aveva il suo appartamento romano. Seduti fianco a fianco, Federico parlava e il pianista arpeggiava sui tasti. Capitava che, nell’estrema felicità creativa, Rota inseguendo le arie che affioravano alla sua mente non ricordasse talvolta ciò che aveva appena evocato e che inutilmente Federico lo esortava a fermare sul pentagramma. “Te ne faccio un’altra”, lo rassicurava serafico l’amico senza smettere di trarre dallo strumento ghirlande di melodie che si inseguivano come rifluendo da una inesauribile sorgente.

Aveva scritto Federico: «Io mi mettevo lì, presso il piano, a raccontargli il film, a spiegargli cosa avevo voluto suggerire con questa o quella immagine, con questa o quella sequenza; ma lui non mi seguiva, si distraeva, pur se annuiva, pur se diceva di sì con grandi gesti di consenso. In realtà stava stabilendo il contatto con sé stesso, con i motivi musicali che già aveva dentro di sé. E quando quel contatto veniva stabilito, non ti seguiva più, non ti ascoltava più, metteva le mani sul pianoforte e partiva come un medium, come un vero artista. Alla fine gli dicevo: “E’ bellissimo!” Ma lui mi rispondeva: “Non me lo ricordo più.”»

Così il regista si era attrezzato con un registratore che azionava appena Nino appoggiava le dita sui tasti. E aveva acquistato un pianoforte per il proprio studio (a via Sistina prima e a Corso d’Italia poi), in modo che in qualsiasi momento l’estro del musicista potesse tradursi non solo in rapidi segni di matita sulla carta, ma anche in un rapimento sonoro, in un ascolto incantato.

Del resto l’influsso di Rota nella vita di Fellini trascendeva anche la musica, insinuandosi in ambiti sapienziali inesplorati, come accade in presenza di esseri ‘illuminati’:

«Era una creatura che portava con sé una qualità rara, quella qualità preziosa che appartiene alla sfera dell’intuizione. Era questo il dono che lo manteneva così innocente, aggraziato, lieto. Ma non vorrei essere frainteso. Quando si presentava l’occasione, o anche quando l’occasione non si presentava, diceva delle cose acutissime, profonde, dava giudizi di impressionante esattezza su uomini e cose. Come i bambini, come gli uomini semplici, come certi sensitivi, come certa gente innocente e candida, diceva improvvisamente delle cose abbaglianti…»

 

Dal 1950 al 1979 Nino Rota musicò diciannove film del regista riminese, da “Lo Sceicco Bianco” a “Prova d’Orchestra”; ma Federico continuò a utilizzare i temi del compositore anche nelle opere posteriori. E la fusione poetica fra i due linguaggi – immagini e note – appare oggi ancora più indissociabile: è possibile pensare La Strada senza il suono della tromba di Gelsomina?

Il musicista morì per improvviso cedimento del cuore il 10 aprile del 1979, quando Fellini stava terminando le riprese di Prova d’Orchestra e Nino aveva appena concluso per lui l’ultima partitura. Qualcuno venne sul set, mormorò brevi parole all’orecchio di Federico, e io vidi il suo volto impallidire all’istante, diventare bianco come un foglio di carta, negli occhi, indimenticabile, una sorta di doloroso smarrimento, come se gli avessero mutilato un arto.

Il 12 aprile si tennero i funerali a Roma nella chiesa di Sant’Agostino accanto alla sua abitazione. “L’amico magico” era volato via: «Quell’omino che cercava di uscire da porte che non c’erano, e che poteva realmente uscire anche da una finestra, come una farfalla, avvolto com’era da un’atmosfera magica, irreale».


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