“May You Live in Interesting Times”. La Biennale poteva trovare un titolo più seducente di questo? In un’ epoca di guerre e distruzioni, di crisi economiche e finanziarie, di conflitti tra Stati, di lotte mortali tra componenti dello stesso Stato! Viene in mente un’ opera-neon di Mario Merz, installata alla Collezione Guggenheim di Venezia. Dice: “se la forma scompare la sua radice è eterna”. Lo dice dell’ arte, ma lo dice anche della vita. Proprio in momenti come questi, nel terreno stravolto dalle vicende della storia, dove tutto sembra aver perso ogni possibile forma, l’ arte con il suo bisogno prepotente, indomabile, di ridare una forma nuova alla vita, ci ricorda che anche in momenti come questi possiamo trovare il significato vivo e vitale della nostra presenza. Ci propone quello che solo l’ arte, anche in un momento difficile, per molti drammatico, ci può offrire. “La speranza spera tutto” ha scritto San Paolo. Apostolo, senz’ altro, ma anche acuto pensatore. E’ l’ arte che anche nelle macerie ci può far trovare l’ inatteso. Anche se la forma, tutto ciò che è intorno, è stato distrutto, l’ arte, la sua irrinunciabile forza di ridare una forma alla vita, ai molti aspetti della vita, ha la forza di rendere interessante il nostro tempo, ci permette di accogliere questo invito che la creatività ogni volta rinnova: possa tu vivere in tempi interessanti.
Ci lancia questa traccia esile, sottile ma forte come un filo di tantalio, riafferma questa insopprimibile esigenza della vita. Quale che sia la situazione ci offre questo spazio aperto e piacevole, così sorprendente da poter essere vissuto come una molteplicità di tempi interessanti.
Questo sembra suggerirci, queste proposte, ci offre la prossima Biennale Arti Visive aperta al pubblico dal prossimo 11 maggio, fino a tutto il 24 novembre di quest’ anno, curata da Ralph Rugoff che invita fin d’ ora i visitatori a trovare, nel grande rumore del mondo, frammenti di senso. Poche settimane e vedremo con curiosità affascinata la chiave di lettura, i suggerimenti che ci propone, gli scambi cui ci invita.
Rispetto al passato quest’ edizione della Biennale ha ridotto di molto gli artisti nella sezione principale (non più di ottanta) cui si aggiungeranno i molti presenti nelle numerosissime presenze nazionali, 90, un record. Un numero contenuto nella proposta base, non nell’ assieme.
Ai tempi di “Aperto” (1980), da lui creato con Achille Bonito Oliva, in una lunga passeggiata lungo le Zattere, costeggiando il Canale della Giudecca, chiaccherando di arte e di mostre, Harald Szeemann mi spiegò che in quel momento non era interessato a mostre per il grande pubblico. Pensava a mostre esoteriche, era attratto dalla teosofia, non sentiva la sirena della popolarità, a Venezia aveva portato una mostra realizzata nel 1975, “Le macchine celibi”, mostra dura, colta, profonda, che nulla concedeva al piacere della visione, molto alla riflessione, all’ esplorazione di un mondo esistito e, purtroppo, tutt’ ora presente. Quante personalità-macchine celibi incontriamo nei media, nella vita personale. La ricerca instancabile di Szeemann escludeva la fissità, evolveva nel tempo. Nel 1981, Direttore della Biennale Arti visive, realizzò una mostra che portava il nome “La platea dell’ umanità”. Sapeva coniugare la solitudine del grande pensatore all’ apertura verso il mondo, alla molteplicità degli stimoli che da qui provengono, così diversi, così ricchi di significato e di contraddizioni.
Il grande numero di artisti presenti negli anni alla Biennale ne aiutano anche a capire la storia, il senso della sua presenza. Tutti sanno che alle sue origini c’ è l’ esperienza della Secessione monacense, la frequentazione parigina di alcuni artisti veneziani, il fascino sentito da alcuni degli organizzatori nei confronti del simbolismo, ma il punto di svolta nel campo delle mostre era avvenuto qualche decennio prima, nel 1851, nella Londra che inaugurò la stagione delle Esposizioni universali. Quale svolta? Un mondo monolitico si apre all’ esperienza della frantumazione, del valore del frammento. Non conta tanto la gerarchia dei valori, una graduatoria predefinita, un alto e un basso. Conta la molteplicità delle presenze, il quantum, il molto che viene offerto. Il visitatore non segue più una gerarchia di valori, stabilizzata nel tempo, consacrata dall’ opinione comune. Ciascuno si muove all’ interno di ciò che gli interessa, di ciò che apprezza o sa apprezzare. Del molto che gli viene proposto coglie solo ciò che la sua sensibilità vuole o può cogliere. Sono i suoi interessi che creano la gerarchia dei valori. Dipende dall’ intelligenza del visitatore scoprire ciò che vale la pena di osservare, analizzare, trasformare in punto di riferimento.
Nel tempo la Biennale ha sempre voluto accompagnare ogni edizione con una scelta tematica, con una propria proposta di lettura. A volte in ciò è riuscita, altre volte meno. Ma la sua forza è anche data dalla molteplicità delle presenze (anche 80 artisti più quelli presentati nei padiglioni nazionali non sono pochi). Vedremo le proposte di Rugoff, la sua volontà di cercare nuove voci (tra queste due italiane: Ludovica Carbotta e Lara Favaretto). Si aggiungeranno eventi speciali curati dallo stesso Rugoff, gli artisti presenti nei 90 padiglioni nazionali. Il Padiglione Venezia, avrà nuova vita e nuova intelligenza. Anche in questo caso, lette le proposte del curatore il visitatore dovrà cogliere tra i molti frammenti la propria gerarchia di valori. Cosa che, paradossalmente, è oggi un fatto assolutamente aderente alla sensibilità contemporanea, a quella dei giovani in particolare. Forse a questo pensava Baratta, giunto all’ ultimo anno della sua presidenza, quando nella conferenza stampa di presentazione ha dichiarato che questa Biennale ha fatto dei visitatori il suo vero partner. Saranno loro a creare una gerarchia di valori. Le proposte di Rugoff saranno certamente una solida introduzione. Ma poi, come ha scritto Saramago: “termina il viaggiatore, non il viaggio”.