Lei condivide l’analogia tra fascismo storico e il populismo di destra espresso da Salvini?
«La mia è una risposta ambivalente, nel senso che riconosco elementi di analogia ma anche di forte novità».
Dove vede la somiglianza?
«Salvini sta pienamente dentro quella che Piero Gobetti nel 1922 aveva definito “autobiografia della nazione”, riferendosi alla fragilità politica degli italiani. Sia il fascismo che le cadute successive rivelano la tendenza degli italiani a consegnarsi di volta in volta a un salvatore della patria. Una prova di immaturità politica ricorrente. Con indubbie analogie tra Mussolini e Salvini sul piano dello stile».
A cosa si riferisce?
«L’ostentazione delle amanti, insieme al grido “Dio, patria e famiglia”; la convivenza di trasgressività e benpensantismo; il bisogno di annullare le differenze in una identità omogenea, in nome dell’ odio del diverso».
Ma schiacciando l’attuale populismo di destra sul fascismo storico non si corre il rischio di disconoscerne la novità?
«Questo è il punto. La storia non si ripresenta mai nelle stesse forme.
Nonostante il piglio fascistoide di Salvini, non credo che vi sia la minaccia di una involuzione autoritaria, come quella che si profilò cent’anni fa. Si tratta di due cose molto diverse. Dietro il fascismo c’ era una immagine del mondo, un’ idea, una weltanschaaung. C’ era il recupero seppur bolso e retorico di un grande passato, che quindi si conosceva. C’era il popolo delle trincee che rivendicava il sangue versato in guerra. Dietro Salvini non c’è niente: solo un grande vuoto riempito di retorica tracotante. Il suo è un populismo senza popolo, identificato in segmenti di volta in volta diversi: prima la Padania, oggi la comunità clericofascista del Congresso di Verona, domani chissà.
E se il fascismo ha incarnato il demone della politica quando la politica era una cosa fortissima, l’attuale passaggio storico segna il trionfo di una politica senza politica, ossia di una politica non più capace di cambiare davvero la società.
Quella di Salvini è l’ostentazione potente di una politica impotente».
Lei scrive che è un fenomeno inedito perché non è più radicato nelle culture politiche ma nelle fratture sociali.
«Sì, noi veniamo da una esperienza che non è stata catastrofica come la guerra, ma che ha prodotto sconvolgimenti sociali paragonabili a quelli di un conflitto. I dieci anni di crisi economica alle spalle hanno scosso alle fondamenta il nostro assetto sociale, spingendo verso il basso tutte le sue varie componenti.
E questo ha alimentato malanimo, frustrazione, invidia in chi si sente abbandonato o tradito. Il peccato originale di Salvini è di aver fatto da megafono a questo fondo torbido di cattiveria e rancore di cui le persone a lungo si sono vergognate.
Berlusconi aveva sdoganato la volgarità della ricchezza; Salvini ha sdoganato la ferocia degli italiani. Li ha fatti diventare cattiva gente o, meglio, ne ha mostrato i lati oscuri sotto l’ abito di brava gente».
Però questo vuol dire che un amalgama nero covava in seno al corpo sociale: sovranismo, xenofobia, razzismo, suprematismo bianco.
«Una sintesi di tutte queste cose è rappresentata dal disprezzo dell’altro e dalla riduzione del diverso da sé a cosa. È un istinto che la cultura a lungo ha trattenuto e quelli come Salvini hanno liberato. La psicoanalisi ci spiega che sono pulsioni insite nella natura umana: è l’ ombra di cui parla Jung».
Colpisce la diagnosi impietosa firmata da diverse società psicoanalitiche italiane: siamo sull’orlo di una crisi psicotica.
«Fanno bene a lanciare l’ allarme.
Oggi io non temo la dittatura politica – la politica senza politica non è in grado di produrre dittature! – ma temo la psicosi che non viene più governata, anzi viene alimentata.
Paranoia e politica rappresentano una coppia dinamica che ha viaggiato insieme nel corso della storia. Ma le cose funzionano fin quando la politica democratica è in grado di controllare le psicosi. Oggi sta succedendo il contrario: la “politica senza politica” trova nella malattia mentale collettiva la fonte primaria del suo consenso».
Lei diceva prima che l’ombra è insita nella natura umana. Ma nel caso di certe pulsioni è difficile non ricondurle alla nostra eredità fascista.
«Questo sì. Noi non abbiamo fatto i conti con il fascismo nel senso che non ne siamo guariti del tutto: abbiamo controllato i sintomi ma non abbiamo rimosso le cause».
Zagrebelsky ha denunciato il pericolo che la semina della paura possa tradursi in regime autoritario.
«Questo apre un versante importante sul piano della teoria politica. La paura è una componente fondamentale della politica del moderno: pensiamo a Thomas Hobbes. È l’ instrumentum regni che permette di mettere fine alla guerra di tutti contro tutti e obbliga a mantenere i patti. Però si tratta di una paura verticale: la paura che il potere incute ai consociati costringendoli al rispetto delle regole condivise. Rappresenta quindi un superamento dello stato di natura dove domina la paura orizzontale: ognuno ha paura dell’ altro. La tragedia di oggi è che, proprio perché il potere politico è vuoto, la politica torna ad alimentare una paura orizzontale».
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Sta dicendo che c’ è il rischio di un ritorno allo stato di natura?
«Faccio un esempio: l’invito ad armarsi è proprio l’opposto di quel che faceva lo Stato hobbesiano che monopolizzava la violenza: a nessuno era lecito portare armi. Oggi al contrario siamo tutti invitati ad armarci contro tutti. O, meglio, contro qualcuno che di volta in volta viene identificato come colui che fa paura».
Quindi lei non teme la torsione autoritaria, ma il caos.
«Sì, il disordine più totale prodotto dal vuoto della politica. Ed è questo un avversario molto temibile: è difficile combattere il vuoto».
Resta il fatto che, da un secolo, l’Italia batte svariati record sul piano dell’invenzione politica.
«Negli anni Venti del Novecento abbiamo inaugurato l’ epoca dei fascismi. Al principio degli anni Novanta abbiamo aperto l’ epoca dei neopopulismi. E oggi abbiamo prodotto nell’ Europa occidentale l’ embrione di un populismo orientato verso posizioni di estrema destra».
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C’ è un filo che unisce queste diverse “invenzioni” politiche?
«Mettiamola così: siamo leader nell’esportazione di cattivi modelli.
E il filo comune è in quella che ho evocato al principio, la gobettiana autobiografia della nazione: nei momenti topici di transizione, l’Italia non ha gli anticorpi per affrontare infezioni di questo tipo. Siamo rimasti dei minorati politici, incapaci di assumerci le responsabilità, e le crisi ci hanno quasi sempre consegnato a figure di demagoghi spregiudicati. Questa è la nostra storia».