BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Marcella e Saverio nella Calabria dei silenzi

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di Asia Rubbo

marcella tassone  Vedere qualcuno morire per la colpa d’esser nato in una famiglia sbagliata, in un paese sbagliato e forse in una parte sbagliata d’Italia non è una cosa semplice da mandare giù. Lo è ancora meno se chi muore ha solo dieci anni.
E’ successo a molte, troppe persone e trent’anni fa, il 23 febbraio 1989, è successo anche alla piccola Marcella Tassone. Nata e cresciuta a Laureana di Borrello, nella Piana di Gioia Tauro in Calabria, la bambina avrebbe dovuto compiere a breve undici anni. La sua era una famiglia apparentemente normale, ma nella cronaca del tempo si legge che, forse, i fratelli di Marcella avevano “alzato un po’ la testa”, invischiandosi in una delle tante faide che hanno caratterizzato quel territorio soprattutto tra gli anni ’80 e ’90. Il contesto non era per nulla semplice e, al centro degli scontri, era proprio la cittadina di Laureana flagellata da continui omicidi.
Alfonso Tassone, fratello di Marcella e appena ventenne, era l’obiettivo dell’agguato avvenuto la sera del 23 febbraio del 1989. Uscito da poco di prigione, il ragazzo si era probabilmente inimicato qualcuno di “importante” e la vendetta non ha tardato ad arrivare.
A chi doveva ucciderlo, i movimenti di Alfonso erano già noti: sapevano esattamente quali strade avrebbe percorso con la sua Alfetta. Su quella macchina però, quella sera, Alfonso non era solo. La sua sorellina, Marcella, era seduta al suo fianco e non vedeva l’ora di tornare a casa per guardare il Festival di Sanremo.
D’un tratto l’auto viene colpita dai pallettoni di una lupara, che arrivano dritti ad Alfonso mandandolo fuori strada. La sorella Marcella non viene colpita. Malgrado questo, però, né Alfonso, né Marcella sono tornati a casa quella sera. Alfonso avrebbe dovuto essere l’unico a morire, ma se Marcella fosse rimasta in vita avrebbe potuto essere una testimone troppo scomoda. I due killer si sono avvicinati alla macchina, le hanno puntato la lupara contro e l’hanno uccisa con sette colpi.
Un anno dopo, a Vibo Valentia, scompare un ragazzino di 11 anni, Saverio Purita. Nessuno poteva immaginare che cosa gli sarebbe successo e, soprattutto, in che condizioni sarebbe stato ritrovato.
Nicola Purita, suo padre, era partito da Vibo all’inizio degli anni ‘80 ed era diventato un facoltoso imprenditore a Milano. Si occupava di edilizia, ma dopo qualche tempo venne coinvolto in inchieste di mafia e, probabilmente, aveva dato fastidio a qualcuno. Tornato a Vibo, infatti, era stato ucciso con un colpo di pistola e poi dato alle fiamme.
Trovare informazioni sul perché e sul come del suo omicidio è molto difficile, ma ciò che si sa con certezza è che a suo figlio è toccata una sorte forse ancora peggiore e non macchiata di alcun tipo di colpa.
A quattro giorni dalla sua scomparsa, il 27 febbraio, il corpo di Saverio viene trovato tra Lamezia e Vibo Valentia: la testa è immersa nella terra, il corpo è carbonizzato.
Marcella e Saverio avevano praticamente la stessa età e le loro storie sono il segno di una memoria che non c’è. La sorte di Marcella, forse perché una bambina, è stata oggetto di molti articoli di giornale anche a livello nazionale.
E’ su La Repubblica di quell’anno che si legge dei suoi funerali, a cui ha partecipato l’intera comunità di Laureana. Al contempo però, si descrive l’assordante silenzio che ha avvolto tutta questa vicenda: “Chi è stato? Le indagini, come per gli altri delitti, non hanno portato a nulla. Ma la gente qui […] dice che è semplice sapere chi è stato, che i carabinieri potrebbero andare a colpo sicuro a prendere tutto un gruppo familiare che abita in un quartiere vicino al luogo in cui è avvenuta la strage. Una strage che, stranamente, in Calabria non ha provocato alcuna reazione di sdegno, nonostante una delle vittime sia stata una innocente bambina. Partiti e sindacati hanno taciuto. Non si sono fatte sentire né vedere le donne della neonata associazione delle donne contro la mafia e la violenza di qualsiasi genere. Enti e istituzioni si sono comportati come se nulla fosse accaduto.”
Scrive così il cronista del quotidiano, Pantaleone Sergi, che in poche righe riesce a cogliere il paradosso di una terra come quella calabrese. Da un lato testimonia la vicinanza espressa dalla comunità dove la piccola Marcella era nata e cresciuta, dall’altra la normalità di un silenzio assordante da parte di chi avrebbe dovuto parlare e, invece, ha nuovamente nascosto la testa sotto la sabbia. Anche la testa di Saverio Purita è finita sotto la sabbia, ma di lui, della sua tenera età e della sua atroce morte, non si è quasi mai parlato. Le prime indagini ipotizzavano che il colpevole fosse un maniaco, una sorta di bestia e un pericolo per l’intera comunità. Gli iniziali sospetti però caddero subito, l’intento era stato unicamente quello di ucciderlo.
Due morti così difficili da accettare sono, al giorno d’oggi e forse già allora, state accolte da un silenzio generale. Eppure, quando si parla di bambini uccisi a questa maniera il bisogno di sapere e, forse, la necessità di indignarsi, dovrebbero colpirci come un pugno allo stomaco.
Viene quasi naturale pensare alla situazione attuale, alla rassegnazione o forse all’indifferenza con cui accettiamo la morte di donne, uomini e bambini nella traversata del Mediterraneo. Oggi “l’altro“ è chi viene da lontano, chi scappa da qualcosa che non conosciamo e che pensiamo di non poter capire. Marcella e Saverio erano “altro” da noi? Com’è possibile distaccarsi a tal punto da riuscire a tacere sulla morte di due bambini?
Purtroppo, ciò che avviene più di una volta perde il suo carattere particolare, diventa parte del paesaggio conosciuto e quindi pezzo di una quotidianità accettata come tale. La morte di Marcella, così come quella di Saverio, è stata solo una delle tante morti avvenute in Calabria in quegli anni. I giornali hanno presto dimenticato i due bambini e così ha fatto anche la coscienza collettiva.
A questo silenzio e a questa normalità si deve opporre la memoria, che ha l’arduo compito non solo di tenere accesa una luce su ciò che rischia di essere dimenticato ma, soprattutto, di provare a ribaltare il senso di rassegnazione e indifferenza.
Non deve essere normale morire così, a dieci anni e non deve essere reputato normale tutto il contesto che ha permesso che ciò accadesse.

Da mafie


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