(Articolo21 – Circolo Veneto) – Un sorriso disarmante, occhi che brillano ed un viso da ragazzino che dimostra meno dei suoi trent’anni, quattro dei quali trascorsi presso “La Tumba”, la tomba, il carcere di massima sicurezza ubicato nel cuore di Caracas dove gli oppositori del regime chavista sono detenuti in isolamento 5 piani sottoterra in sette celle di 3 metri per due senza mai vedere la luce del sole, né respirare aria naturale subendo una tortura fisica e psicologica.
Lorent Saleh, premio Sakharov per la libertà d’espressione del Parlamento Europeo nel 2017, durante la sua carcerazione ha tentato per due volte il suicidio tagliandosi le vene.
Oggi sprigiona una voglia di vivere ed un carisma contagiosi che hanno conquistato sabato scorso al Lido di Venezia i molti presenti alla tavola rotonda sul tema “La Difesa dei Diritti Civili in Venezuela”, organizzata, in occasione dell’inaugurazione della Venice School of Human Rights, dal Global Campus of Human Rights (www.eiuc.org), il network composto da cento università mondiali specializzate nell’educazione ai diritti umani.
Lorent Enrique Gómez Saleh – attivista per i diritti umani in Venezuela dal 2011 accusato dal governo Maduro di aver svolto addestramento paramilitare e pianificato attacchi contro il Venezuela, in carcere dal 2014 al 2018 senza un’accusa formale ed un processo in cui l’udienza preliminare è stata fissata e rinviata per 52 volte, esiliato in Spagna – ha fornito il quadro di un Paese che vive in un costante stato di terrore con un livello di violenza molto elevato da parte delle istituzioni governative alle quali tutto è concesso mancando il confronto politico necessario ad alimentare la democrazia.
Nel suo intervento ha spiegato come le cause della situazione di oggi siano riferibili all’ascesa al potere di Hugo Chavez, eletto alle consultazioni presidenziali del 1998 dopo aver tentato il colpo di stato nel 1992 che portò in dote una lunga serie di assassini. E il consolidamento di quella che si è rivelata fin da subito essere una vera e propria dittatura è stato ottenuto usando il potere democratico, in particolare piegando ai propri interessi lo strumento legislativo.
Ma ciò che è stato più deleterio – ha detto Saleh – è l’aver creato un clima d’odio, con una politica populista funzionale al mantenimento del potere, che, come la Storia insegna, è spesso il detonatore dei più aspri e dolorosi conflitti sociali.
Se si aggiunge che, oltre a disporre delle altre risorse minerarie delle quali il Venezuela abbonda, durante il suo governo Chavez il prezzo di un barile di petrolio era passato da 8/10 dollari a 100 dollari, è facile capire come fosse riuscito a portare dalla sua parte tutte le istituzioni, l’apparato della giustizia e, persino, la Chiesa, eliminando i contrappesi necessari e fisiologici alla democrazia, fino ad arrivare nel 2007 ad ottenere anche il monopolio sull’informazione.
In quegli anni ci sono state proteste e tentativi di coinvolgere ed informare l’opinione pubblica mondiale da parte di Saleh e di chi, come lui, chi auspicava una svolta democratica per il Paese, rimasti, tuttavia, inascoltati dalle istituzioni internazionali che hanno preferito mantenere una posizione di neutralità.
Con l’avvento della presidenza di Nicolás Maduro le cose sono peggiorate perché, secondo Saleh, essendo questi meno carismatico del suo predecessore si è avuto un brusco calo del prezzo del petrolio che ha comportato, da un lato, la drastica riduzione delle entrate, dall’altro, un’escalation della violenza e del terrore di Stato.
Tale situazione, insieme al pieno controllo del regime su cibo e medicinali, ha fatto sì che siano rinchiusi nelle carceri del Paese oltre 800 prigionieri politici e che oltre 5 milioni di venezuelani siano stati costretti ad emigrare all’estero.
Alla tornata elettorale del 2015, il partito del presidente ha perso l’Assemblea Nazionale, ragion per cui è stata creata un’Assemblea parallela, non prevista dalla carta fondamentale del Paese, col chiaro intento di scavalcare la volontà popolare.
Ciononostante, l’anno scorso Maduro è stato rieletto presidente ed il fatto di non essersi presentato, come prescrive la costituzione venezuelana, a giurare avanti l’Assemblea Nazionale, configurerebbe un’ipotesi di usurpazione del potere tale da legittimare il presidente dell’Assemblea stessa, Juan Guaidò, a guidare la transizione verso nuove elezioni.
E cosa dovrebbe fare la comunità internazionale? Secondo il Premio Sakharov 2017, non le è richiesto di appoggiare l’opposizione, ma il sistema costituzionale garantendo al governo di transizione di indire delle libere elezioni; inoltre, a fronte delle ripetute violazioni dei diritti umani ed ai crimini contro l’umanità perpetrati, è indispensabile che l’investigazione preliminare in atto da parte della Procura della Corte Penale Internazionale porti quanto prima all’apertura di un’indagine effettiva perché, poi, i responsabili siano chiamati a rispondere a titolo personale delle atrocità commesse, mentre provvedimenti economici come l’embargo finirebbero per ridurre ancora più in miseria il Paese. Inoltre, vi è la necessità di derrate alimentari e di medicine necessarie soprattutto per salvare la vita delle fasce più deboli e a rischio.
Continuare a non far nulla, ha detto, non è un’opzione praticabile, dal momento che rende sempre più plausibile una guerra fomentata dai contrapposti interessi degli Stati Uniti e della Russia, ed ha concluso la sua testimonianza con una domanda che è rimasta in sospeso nell’aria provocando emozione e, soprattutto, la presa di coscienza del dovere di intervenire: “Quanti morti dobbiamo ancora vedere?”.
Sono seguiti, poi, gli interventi dell’Ambasciatrice Mara Marinaki, consigliere principale del Servizio europeo per l’azione esterna sulle questioni di genere e l’attuazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 1325 su Donne, Pace e Sicurezza, la quale ha manifestato l’impegno dell’Unione Europea per la transizione democratica in Venezuela e la grande preoccupazione per la grave crisi umanitaria in corso, in relazione alla quale sono stati stanziati 50 milioni di euro, sottolineando come la soluzione pacifica del conflitto sociale in atto è l’unica da prendere in considerazione; quello del Prof. Michel Forst, Relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei difensori dei diritti umani, che ha posto l’accento sulle molte segnalazioni ricevute dal suo ufficio circa situazioni di criminalizzazione dei difensori e delle difensore dei diritti umani in Venezuela, spesso al centro di attacchi diffamatori, di violenze e carcerazioni arbitrarie e sul progetto di “temporary relocation”, che prevede la possibilità per i difensori dei diritti umani di lasciare per un breve periodo il loro Paese in un momento di particolare rischio e trovare rifugio in un Paese terzo. Va sottolineato, in proposito, come l’Unione Europea abbia creato una Piattaforma di coordinamento per l’asilo temporaneo dei difensori dei diritti umani, a cui hanno aderito vari governi, istituzioni e organizzazioni non governative. Iniziative di “città rifugio” sono state avviate a livello locale, regionale, nazionale e internazionale, come l’iniziativa “Shelter Cities” del governo olandese e dell’ONG Justice and Peace, o il programma dei Paesi Baschi in collaborazione con l’ONG Cear-Euskadi. In Italia hanno aderito all’iniziativa, per il tramite della rete “In Difesa Di” (www.indifesadi.org), la Provincia ed il Comune di Trento, e, successivamente, i Comuni di Asiago, Padova, Cadoneghe, Ponte San Nicolò, Rubano e Noventa Padovana.
Ha concluso la tavola rotonda – presentata la Prof. George Ulrich, Direttore del Master Europeo in Diritti Umani e Democratizzazione, e patrocinata dall’Unione delle Camere Penali Italiane, dall’Ordine degli Avvocati di Venezia, dalla Fondazione Feliciano Benvenuti e dalla Camera Penale Veneziana – il Prof. Manfred Nowak, Segretario Generale del Global Campus of Human Rights, già Relatore speciale dell’ONU sulla tortura, che ha evidenziato il parallelismo fra le strutture carcerarie dove vengono rinchiusi i prigionieri politici in Venezuela con quella di Guantanamo, caratterizzate tutte dall’isolamento con l’esterno, dal senso di deprivazione, dall’alienazione dei detenuto che non sopporta più le urla degli altri suoi compagni torturati e, quella che lui stesso, richiamandosi al celebre saggio di Hannah Arendt, ha definito la banalità del male delle guardie penitenziarie capaci di rispondere in modo compassato alle richieste di intervento da parte dei detenuti, presentandosi ancora sudate e con le mani grondanti di sangue. Questo non è solo il portato di una responsabilità individuale, quanto, piuttosto, del sistema che consente la tortura. Secondo Nowak, quindi è necessario che gli strumenti approntati dalla comunità internazionale evolvano. In particolare, a fronte di violazioni dei diritti umani e crimini contro la popolazione che hanno raggiunto il livello di crimini contro l’umanità, ha evocato il compito della Corte Penale Internazionale di proteggere le vittime con la consapevolezza, però, che i tempi che stiamo vivendo non sono più quelli durante i quali è stato concepito la Statuto di Roma, che ha istituito la Corte, e che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è paralizzato, come ha dimostrato la gestione della crisi siriana.