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Lo sguardo dei “Cavalli alla finestra” non conosce confini all’ITC Teatro dell’Argine

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Se il teatro ha una sua funzione come atto di resistenza civile, “ Cavalli alla finestra” di Matéï Vi (nato in Romania nel 1956) dimostra la capacità di formare una coscienza collettiva dove la cultura sia esente da pregiudizi e ideologie. Al drammaturgo di origini rumene (rifugiato politico in Francia dal 1987), la rivista semestrale Prove di drammaturgia ha dedicato il numero monografico “Il teatro di Matéï Vișniec impronta dei tempi” curato da Gerardo Guccini. «Sotto i regimi comunisti la letteratura era l’unico modo che consentisse di acquisire una certa libertà di pensiero. Tutti scrivevano poesie. Tutta la mia generazione ha esercitato una resistenza culturale – scrive Matéï Vișniec -; Vivevamo in un paese in cui la cultura e le scienze sociali erano censurate e controllate dall’ideologia. Gli storici non erano liberi, e così i sociologi, gli psicologici, i pedagoghi, i giornalisti. Solo gli autori potevano essere liberi. La letteratura ha assunto i compiti di tutte le altre discipline.Il romanzo, la poesia e il teatro facevano ricerca storica e informazione, erano un’alternativa al pensiero ufficiale e, seppure attraverso metafore, esplicavano forme di critica sociale. Il teatro soprattutto era uno spazio critico e di denuncia. Mi sono chiesto perché in Romania il teatro fosse più censurato dei romanzi e della poesia. Il fatto è che il teatro faceva più paura di un romanzo di denuncia. Per il potere totalitario, un libro non era pericoloso quanto uno spettacolo perché il libro è letto in solitudine. E anche se il libro spinge alla rivolta, non puoi uscire da solo in strada a manifestare. Invece in quattrocento spettatori e trenta attori può creare una rivolta subito! Questa è la ragione per la quale il teatro era più censurato rispetto agli altri generi».
Vișniec scrive nel 1987 “I cavalli alla finestra”, censurato la sera prima dell’andata in scena, motivo per cui decise di lasciare la sua patria per esiliare in Francia. Ma oltre a impedire di rappresentare un testo teatrale la censura operava anche in un altro modo ben più subdolo: « La censura invisibile. Al ministero della cultura venivano dati degli ordini che costringevano il regista a cambiare intere scene. Uno spettacolo, così, veniva ad avere varie versioni. Muovendosi fra queste – prosegue il drammaturgo – i registi conducevano una vera e propria guerra contro il pensiero omologato del regime: spesso ripristinavano i gesti censurati spiazzandoli o concentrandoli»Matéï Vișniec crede in un teatro che possa consentire una resistenza culturale e denuncia quanto sia presente in Occidente il consumo della «sottocultura americana. Quando ero studente mi sono impregnato di letteratura francese e di cinema italiano. Sono cresciuto vedendo i capolavori del neorealismo e i film di Fellini. Si traduceva molto anche la letteratura francese. Oggi invece si traduce tutto quello che proviene dall’America. Questo paese ci ha colonizzato il subconscio. Contro questo bisogna sempre resistere. Credo che il teatro possa consentire una forte resistenza culturale».
Il merito di aver conosciuto questo autore e il suo testo “Cavalli alla finestra” è di Andrea Paolucci regista e direttore artistico del Teatro dell’Argine ITC di San Lazzaro di Savena dove l’impegno è quello si di far conoscere una drammaturgia europea, ma soprattutto, farsi portavoce di valori culturali e sociali di cui si sente drammaticamente la necessità, come mezzo di contrasto di ogni forma di sovranismo e qualunquismo, quanto dilagante e pericolosa violenza nei confronti del libero pensiero.
Il regista scrive nelle note di regia: «Ho conosciuto il teatro di Matéi per caso, ad Avignone nel 2006. In una saletta da poco più di 60 posti una compagnia rumena metteva in scena in francese I cavalli alla finestra. Nonostante il mio francese scolastico, è stato proprio il testo a colpirmi: una calibrata miscela di surrealismo e naturalismo, di nonsense e di cinico realismo. Quel testo così apparentemente lineare nel suo far avanzare la trama, riusciva a toccare il comico e il tragico, il razionale e l’assurdo, il lirico e il prosastico».
Il testo riportato in scena, dopo averlo già diretto nel 2010, è uno spettacolo di stringente attualità: la mirabile interpretazione di Micaela Casalboni, attrice duttile e sempre misurata con le doti di chi sa esprimere le tante sfumature del suo ruolo, e con lei i bravi e convincenti Giovanni Dispenza e Andrea Gadda, offre la possibilità di assistere ad rappresentazione che suscita forti sensazioni emotive; là dove la narrazione non cede mai il posto alla retorica. Tutto appare sospeso come in una favola dai toni astratti e surreali, senza riferimenti temporali precisi, quanto calzante nelle dinamiche precise che si susseguono. Fuori dalle finestre di una casa ma potrebbe essere un luogo senza tempo, la ferocia umana esercita il suo ruolo senza tregua e l’eco della guerra arriva tramite un messaggero con l’incarico di recapitare la ferale notizia: il figlio mandato a combattere è caduto sul fronte di guerra. A mandarlo a combattere era stata la madre. Per amor di patria o altro non fa differenza. L’assurdità del male anzi la “banalità del male” citando Hannah Arendt si materializza nelle vesti di un portatore di messaggi dall’aria stralunata, caricaturale, quasi grottesco e il suo fine è quello di evitare un qualsiasi contatto empatico o semplicemente solidale per la perdita.

Un mazzo di fiori colorati e una busta gialla sono segni e simboli che la tragedia è un evento trascurabile, inevitabile. La guerra è lontana da quel luogo e viene solo evocata ma non è una scelta nell’evitarla ma il contrario. Il drammaturgo Matéï Vișniec sceglie di sfiorarla appositamente muovendo delle pedine umane in un contesto domestico e famigliare popolato da personaggi che vanno a comporre le tre storie che si intersecano e si mescolano con un unico soggetto denominatore che li accomuna. Sono legami famigliari per nulla sereni: una vecchia madre e un figlio balordo, una figlia remissiva e un padre che sta male, e infine, una coppia dove la moglie subisce le angherie di un marito violento. La guerra è dentro di loro e tutto si riverbera nel contesto generale che sta sullo sfondo. Non c’è nulla di eroico ma solo l’ineluttabilità della tragedia umana che si fa sentire nell’animo di chi l’ha creata e la vive. Vittime di se stessi. Lampi di battaglie e scontri tra soldati sono evocati da un disegno registico e scenografico che amplifica tutto con una sintesi perfetta. Elementi scenografici utilizzati all’interno del pensiero drammaturgico capaci di esaltare la partitura. Bauli, valigie, armadi, diventano contenitori in cui sono racchiuse le tracce dell’orrore, della violenza, le fotografie che testimoniano quante vite spezzate si sono dovute immolare sull’altare del sacrificio, illuminate da piccoli lumi a rischiarare per un istante il buio esistenziale che avvolge tutto.

Decine di paia di scarponi militari volano come schegge di proiettili e la scena è potente. La regia di Andrea Paolucci agisce con estrema linearità astraendo la vicenda narrata attraverso tre episodi, ma con la saggezza di mantenere la giusta astrazione in un contesto universale. Appare il dramma umano della violenza commesso verso il proprio simile e le metafore per rappresentarlo sono indicative della poetica scelta dal regista. Lo scandire del tempo è relativo, lo spazio -luogo è un ambiente più surreale e a tratti fiabesco ma crudele, come lo sono spesso le fiabe per bambini: qui rivolta ad una platea adulta però (compresi gli studenti delle scuole), nell’accezione più alta e artistica per dare un’idea di come l’atmosfera venga percepita. Storicizzare la guerra in questo modo è la scelta più appropriata e condivisibile: la drammaturgia di Matéï Vișniec riesce a raccontare la tragedia lasciando la libertà allo spettatore di elaborarla senza ideologie precostituite. Tutto concorre al successo meritato e attentamente studiato nelle sue componenti sceniche: regia, interpretazione, la scenografia capace di assumere un linguaggio drammaturgico complementare e congeniale ad esaltare lo stile che contraddistingue la Compagnia dell’Argine. La scelta delle musiche non è scontata e funzionale ad un semplice ruolo di supporto: Philip Glass con i brani Koyaanisqatsi – Pruit Igoe e Prophecies; Naqoyqatsi – Religion, Media Weather e Definition. Di Pook Jocelyn estratti da Oppenheimer e Goya’s nightmare. Un linguaggio sonoro musicale capace di esaltare e guidare la visione attraverso il suono di note instillate all’interno dell’azione drammaturgica. La teatralità di queste musiche è ben evidente nel pensiero registico.

Il Teatro dell’Argine ITC Teatro: spazio di inclusione sociale e culturale aperto su orizzonti senza confini
Sul sito del Teatro dell’Argine che risiede all’ITC di San Lazzaro di Savena appare una slide: “Un teatro multidisciplinare, internazionale, d’inclusione, culturale, intergenerazionale e di promozione sociale”, quest’ultima pratica fondamentale per la direzione artistica. Nel mese di marzo ha preso parte al Corso di Alta Formazione in “Pratiche sociali e giuridiche nell’accoglienza e integrazione dei migranti” dell’Università di Bologna, condotto da Micaela Casalboni. Affronta tematiche urgenti come il disagio e le fragilità sociali, psichiche e fisiche , avvalendosi di esperti dove vengono discussi il disagio sociale e famigliare, il bullismo, il razzismo, le problematiche di droga, la disabilità. È una delle realtà artistiche più produttive che si distingue per l’ attività formativa rivolta a tutte le generazioni: l’intento è quello di offrire una cultura della condivisione e partecipazione alle tante proposte artistiche diversificate. Il teatro viene visto come una casa capace di includere non solo il pubblico abituato a frequentarlo ma luogo di scambio, di riflessione, come può essere un laboratorio, un incubatore di creatività.
Nato nel 1998, in origine era un’aula magna di un istituto tecnico commerciale ( da qui il nome ITC), per trasformarsi progressivamente, alla fine degli anni ’80, uno spazio artistico di riferimento per comici e artisti d’avanguardia. Una casa del teatro come amano definirla chi la abita con un unico obiettivo: favorire «l’incontro e la contaminazione, dove si possono conoscere persone, stringere rapporti, ascoltare storie». Le attività che si svolgono hanno un grande merito, quello di radicare sul territorio una sorta di compartecipazione ai progetti artistici dove ognuno dei partecipanti si sente anche coprotagonista: basti ricordare “Futuri Maestri” con il coinvolgimento di mille studenti e personalità del mondo della cultura, delle scienze, della medicina. Un progetto che non ha eguali in Italia.
Passione e studio sono le due peculiarità che distinguono l’attività dell’ITC, e non si tratta di una semplice constatazione sulla fiducia, ma l’esito di frequentazioni e analisi dei processi artistici professionali e umani (il valore aggiunto di cui va tenuto conto), a riprova del lavoro svolto con assiduità e costanza perdurante nel tempo. La direzione artistica è di Andrea Paolucci, Nicola Bonazzi anch’esso regista e drammaturgo e di Micaela Casalboni.
Luogo di aggregazione sociale è un termine fin troppo abusato: in questo caso però più che mai corrispondente alla realtà oggettiva riscontrata. Il settore ITC Studio è frequentato da adulti e genitori, bambini italiani e stranieri, persone che lavorano nel settore artistico per professione e tanti altri a cui l’arte del teatro è una passione amatoriale, senza distinzioni di sorta. Uno spazio dotato di sette sale per lavorare, recitare, creare e giocare: l’elemento ludico è essenziale e lo si percepisce a vista d’occhio. Salendo le scale che portano al piano dove lo staff lavora sin possono notare le locandine delle produzioni della Compagnia dell’Argine, incorniciate e memoria storica dell’attività teatrale.

«Tra prosa, teatro per ragazzi, sono oltre 130 gli allestimenti realizzati in 25 anni grazie al lavoro di tanti artisti e di molti registi che hanno lavorato negli anni», – ci tiene a ricordare il regista – ma lo sguardo all’insù viene attirato anche da altro, e in questo caso simbolico e metaforico nel suo significato, quando attraversando i corridoi di servizio dietro il palcoscenico del Teatro, ti accorgi delle seggioline di legno appese sul soffitto: come a dire “c’è sempre un posto in più se serve e che ti accoglie”. Andrea Paolucci spiega anche che «qui possono partecipare tutti e trovare ciascuno la propria dimensione soggettiva e piacere nel fare teatro con leggerezza, ma l’ITC è anche luogo di ricerca della Compagnia dell’Argine, dove si studia e si fa ricerca nella fase di preparazione degli spettacoli».
I numeri confermano l’adesione estesa segno di un lungo lavoro di fidelizzazione operato nel corso degli anni, per nulla scontato e semplice da farsi: «Nei corsi che facciamo “a casa nostra” (l’ITC Teatro, la sala principale, l’ITC Lab, il tendone da circo inaugurato l’anno scorso, e l’ITC Studio, la sede distaccata con 7 sale prova) abbiamo una frequenza di circa 900 persone tra i quasi 500 adulti e i 400 tra ragazzi e bambini, divisi in circa 50 laboratori settimanali di teatro, danza, tessuti aerei, circo e ultimamente anche laboratori di magia! – ci spiega Andrea Paolucci – e a questi si aggiungono un numero che si avvicina ad altri 5000 allievi ripartiti in 250 laboratori che svolgiamo “in casa di altri”… ovvero nelle scuole di ogni ordine e grado ma anche presso facoltà universitarie istituzioni culturali, associazioni, ospedali (tra questi il laboratorio che teniamo da anni alla Casa dei risvegli Luca De Nigris di Bologna). Arriviamo a quasi 6000 allievi che per due ore al giorno, una volta alla settimana, da ottobre a giugno vengono e partecipano insieme a noi a tutte le proposte che mettiamo a disposizione».
Sul piazzale esterno c’è anche il Teatrobus: qui si svolgono le presentazioni degli spettacoli con la presenza di un critico (sale spesso a bordo il critico Massimo Marino) con il pubblico che cerca di conoscere ancor prima di vedere. Sono obiettivi artistici, sociali, pedagogici e culturali offerti insieme ad un buffet perché anche il convivio aiuta a socializzare. Il Teatrobus può trasformarsi anche in una minuscola sala teatrale per spettacoli per adulti e bambini, una sala espositiva per mostre fotografiche, una ludoteca con giochi e attività per l’infanzia, e ancora un cinema all’aperto, un salotto letterario. L’ITC – Teatro dell’Argine sorge al confine con altre istituzioni culturali e teatrali (siamo a pochi chilometri da Bologna) ma a San Lazzaro di Savena non ci sono confini né fisici né ideologici, nessun perimetro circoscritto quanto, invece, un’ideale di comunità trasversale e funzionale ad una promozione culturale e sociale (i tanti giovani che frequentano l’ITC evidentemente trovano in questo spazio la possibilità di esprimere le loro esigenze) a cui la politica e le amministrazioni che governano devono tenerne conto con particolare attenzione dove la rima con passione è d’obbligo.


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