di Claudio Abruzzo
La puzza che si avverte è ancora forte quando si rimescolano le carte dell’Affaire bagni chimici. Non nascondiamo che ripercorrere dopo dieci anni le varie tappe di quello che è stato lo scandalo più clamoroso dell’emergenza aquilana provoca a noi abruzzesi ancora molto fastidio e tanta rabbia. Ed è una parola, impressa a fuoco quasi come un marchio sui faldoni del processo, che brucia più di altre e suona come una ulteriore beffa: prescrizione.
Così l’opinione pubblica e gli sfollati aquilani nemmeno dopo dieci anni sapranno – anzi, non lo sapranno mai più – chi sono i colpevoli per lo scandalo dei 34 milioni di euro spesi per i bagni chimici, fondi pubblici sperperati per pagare un servizio per cui ogni ospite delle tendopoli poteva produrre fino a 100 litri al giorno di pipì e popò. Eppure non doveva finire così, perché le indagini – eseguite dalla Squadra mobile dell’Aquila guidata da Salvatore Gava – partirono nell’estate 2009 con i presunti reati in corso d’opera. Il processo, Pm Antonietta Picardi, si è concluso invece 7 anni dopo con la prescrizione, dopo aver celebrato una sola udienza utile in primo grado. Una vergogna senza se e senza ma.
Per gli sfollati e per chi la vicenda l’ha seguita dall’inizio, compresi gli agenti della Squadra mobile che indagarono, più forte della puzza è quindi lo sconcerto e l’avvilimento nel vedere come l’inchiesta “i soldi nel cesso” si è progressivamente trasformata, nel disinteresse delle istituzioni, in “il Processo nel cesso”.
L’oro dei bagni chimici
Ogni post sisma ha le sue regole. Chiunque ha vissuto una simile esperienza sa che le prime necessità dell’emergenza sono dettate dai bisogni primari dei sopravvissuti: dopo l’acqua c’è necessità di vestiario e coperte, seguono il cibo e le medicine, infine il ricovero in tenda e …i bagni. E a L’Aquila, i cessi, arrivarono già dalle prime ore dopo la scossa: un affare di dimensioni colossali.
Nel culmine dell’emergenza aquilana si conteranno 32mila sfollati ospitati nelle 171 tendopoli censite dalla Protezione civile e 4mila bagni chimici, scesi poi a 3.200: secondo un report pubblicato sul sito della Protezione civile (e poi rimosso), la spesa per i soli bagni sfiora i 34 milioni di euro.
Fu la redazione di SITe.it a raccogliere già nei primissimi giorni delle segnalazioni – acquisite subito dalla Squadra mobile dell’Aquila guidata da Salvatore Gava – che parlano di liquami smaltiti illegalmente, bolle di trasporto falsificate, fatture gonfiate, ditte subappaltatrici che si sabotano i mezzi per contendersi la gestione di più bagni possibili… Una serie di irregolarità e reati gravi e una posta in gioco molto alta: l’appalto è da decine di milioni di euro. Il contratto firmato in tempo di pace tra il Dipartimento nazionale di Protezione civile e la ditta aggiudicataria Sebach prevede per ogni bagno un costo giornaliero di noleggio di 23,40 euro comprensivo di una pulizia e un espurgo, mentre per ogni eventuale espurgo aggiuntivo la spesa giornaliera è di altri 18,60 euro. E succede che a L’Aquila il Dipartimento di Protezione civile decide di strafare: richiede ben 3 espurghi aggiuntivi e fa così lievitare il costo di ogni singolo bagno a quasi 80 euro al giorno. Un servizio decisamente eccessivo – e che secondo i calcoli più prudenti risulterebbe di almeno 4 volte superiore al necessario – per il quale ogni ospite delle tendopoli aquilane può produrre fino a 100 litri al giorno di pipì e popò.
La cosa puzza e le forze dell’ordine si mettono subito al lavoro: il sospetto è che i 4 espurghi non siano in realtà effettuati dalle ditte subappaltatrici e che i liquami non siano smaltiti correttamente.
Gli ostacoli istituzionali
I primi bastoni a infilarsi tra le ruote degli inquirenti non arrivano dalle ditte, ma dalle istituzioni: il 13 maggio 2009, il Dipartimento di protezione civile emana – in nome dell’emergenza e in deroga a a leggi ordinarie – la ordinanza n. 3767 mentre la Commissione territorio, ambiente e beni ambientali del Senato il giorno prima aveva accolto l’emendamento n 9100. Con i due provvedimenti, di fatto, si abolisce l’obbligo di tracciabilità dei rifiuti e dei liquami dei bagni chimici: per gli inquirenti diventa quindi impossibile riscontrare il numero effettivo degli espurghi, mentre anche gli sversamenti illeciti diventano impossibili da accertare. Un regalo enorme alle ditte subappaltatrici e una mazzata per gli inquirenti.
La Mobile va avanti
Azzoppati dall’ordinanza che li priva di uno strumento fondamentale di controllo, gli uomini della mobile non si scoraggiano e, tra mille difficoltà, proseguono comunque le indagini. Effettuano controlli, pedinamenti, cronometrano i tempi di pulizia dei bagni, acquisiscono documenti. Accertano che le 4 pulizie al giorno richieste (e pagate) dal Dipartimento non sono effettuate, scoprono palesi violazioni contrattuali e della legge sul subappalto, verificano che molti documenti sono contraffatti e che funzionari e tanti capi campo non avrebbero controllato e vigilato sul servizio.
Una informativa della Mobile ipotizza dei reati nell’assegnazione dell’appalto da parte del Dipartimento: “Le condotte potrebbero essere indicative della tendenza, da parte della stazione appaltante, a favorire l’Ati Sebach nell’aggiudicazione del bando”.
Ma è nell’esecuzione dell’appalto, che si materializzerebbe l’ipotesi di truffa e di una serie di altri reati, consumati quasi tutti a L’Aquila, nel corso dell’emergenza. “L’Ati Sebach – continua l’informativa – servendosi di ditte affiliate, ha fatto risultare un numero di operazioni di pulizia dei bagni chimici maggiore di quelle effettivamente compiute nei diversi campi nel periodo post sisma, in relazione ai tempi minimi calcolati per lo svolgimento di tali operazioni». E nella relazione si avanza anche un altro terribile sospetto: “è di gran lunga più probabile che i veicoli impegnati nello smaltimento liquami trasportassero sostanze differenti da quelle per il quale il servizio era stato disposto”. Ad avvalorarlo è la procuratrice della Sebach Cristina Galieni, che riferisce di aver appreso dai loro controllori che “tutta Italia veniva a scaricare a L’Aquila sostanze non meglio specificate”.
Dalla lettura dell’informativa, anche il panorama dei rapporti tra ditte appaltatrici e Dipartimento è da far tremare i polsi: “Tutta la documentazione acquisita è stata prelevata a Roma presso il Dipartimento ove era custodita in modo non catalogato, alla rinfusa dentro alcuni scatoloni. […] Numerosi rapporti sono privi di nominativo, delle indicazioni sui servizi svolti, degli orari, dei campi e delle sottoscrizioni. Almeno in due rapporti d’intervento risultano contraffatte le firme del responsabile dell’area di accoglienza”. Cristina Galieni, procuratrice Sebach, riferiva agli agenti che “il pagamento del servizio reso sarebbe stato retribuito da parte del Dipartimento come da contratto, senza verifica delle operazioni effettivamente svolte”.
Per i rapporti tra Dipartimento e Sebach, gli agenti mettono nero su bianco: “E’ evidente che a monte, oltre ad un accordo preordinato e finalizzato a rendere non intelligibili quei dati, vi è stata una scarsa (per non dire totale assenza) vigilanza da parte di quel personale preposto al controllo delle operazioni, proprio a fronte della spesa presunta che quel Dipartimento avrebbe dovuto sostenere giacché si aveva la consapevolezza sia del quantitativo dei bagni installati sia delle operazioni di pulizia che venivano indicate (ma non effettuate)”.
Parte il processo: anzi, due
Nel 2012 si chiudono le indagini e parte il processo, che si sdoppia però in due tronconi: il primo finisce a Roma. Riguarda soprattutto gli aspetti legati a contratto e gara d’appalto e vede tra gli indagati per abuso d’ufficio anche Guido Bertolaso: questa tranche si conclude velocemente, dopo una richiesta di archiviazione, con dei proscioglimenti.
Il secondo troncone rimane a L’Aquila ed è relativo all’ipotesi di “falso materiale commesso da privato e frode nelle pubbliche forniture”. Nel maggio 2012 il pm Antonietta Picardi chiude le indagini preliminari: indagate solo l’ex amministratrice e altre due dipendenti della Sebach.
“Il Processo nel cesso”
A L’Aquila la prescrizione arriva già nell’ottobre 2016, ma è l’iter del processo a gridare vendetta. Nel tribunale del capoluogo abruzzese si sono tenute in totale 7 udienze: le prime 4 sono state tutte rinviate o per difetti di notifica o perché lo stesso Pm non si è presentato in aula. Nella quinta udienza, come nel gioco dell’oca, si ricomincia d’accapo: il giudice rinvia gli atti alla procura con l’invito al pm Antonietta Picardi a “riformulare i capi d’imputazione”. La sesta udienza è praticamente da considerare come la prima e unica udienza utile: il giudice dichiara il “non luogo a procedere perché il fatto non sussiste” per le due dipendenti e rinvia a giudizio solo l’amministratrice della società concessionaria per “frode nelle pubbliche forniture”. La settima udienza è la più rapida: al giudice non resta che prende atto della intervenuta prescrizione. Amen.