La vittoria nelle elezioni presidenziali dell’Ucraina di Volodimir Zelenskij, star della seguitissima (in patria, ma venduta a Netflix)) serie televisiva “Il servo del popolo”, ha riaperto l’eterno dibattito sul ruolo del piccolo schermo nei comportamenti elettorali.
I media studies si sono equamente divisi tra coloro che hanno ridimensionato il peso del video e quanti –invece- ne hanno descritto influenze malefiche e durature. Forse hanno avuto ragione i teorici dell’agenda setting, vale a dire la preminente funzione di orientamento sulle priorità, sull’importanza dei temi o degli eventi. Tuttavia, le ricerche hanno generalmente osservato i telegiornali, considerati a lungo vere e proprie agenzie di costruzione del consenso. La discussione potrebbe andare avanti all’infinito, anche se il berlusconismo e i suoi epigoni nei modelli comunicativi (da Renzi a Salvini, al netto delle differenze) hanno dimostrato nei fatti che l’”occupazione” del video i frutti li dà, eccome. Fu proprio il patron di Arcore a dichiarare nel 2001, pur dopo il successo nel voto, che la legge del 2000 sulla par condicio gli aveva sottratto otto punti di percentuale, solo perché la norma aveva introdotto qualche regola. Insomma, sarà verissimo che ormai il clima di opinione passa soprattutto per i social, ma la vecchia regina dei media continua ad imperare.
Il caso ucraino, però, ci interroga sul peso della fiction e del palinsesto formalmente diverso dagli spazi canonici dell’informazione. La serie del “comico” ha letteralmente prefigurato l’esito politico del protagonista in carne e ossa, con la rabdomantica capacità di sollecitare il sogno di cambiamento radicale vissuto da un popolo sfortunato: travolto da occupazione nazista, regime staliniano e consorterie finanziarie insediatesi dopo l’indipendenza. La finzione aumenta il “realismo” della realtà, restituita alla fruizione ricca dei frammenti che si depositano e di cui neppure ci accorgiamo nella quotidianità. Le sceneggiature di successo questo fanno, ora più che mai con gli algoritmi che dettano le sequenze miscelando avvenimenti e attese presumibili del pubblico. Zelinskij è riuscito nell’intento, giocando sulle corde dell’”antipotere” oggi in testa a ogni desiderio di massa. Nel bel volume “Trump non è una fiction”(2017) la studiosa Anna Camaiti Hostert analizza le serie che hanno prefigurato il “trumpismo”. “House of Cards”, ad esempio. La serialità, persino in misura maggiore del cinema-cinema, è ormai oggetto di culto, riuscendo ad interloquire con disagi, sofferenze, assenze che la crisi della democrazia classica e del suo immaginario porta con sé.
Si è paragonato il neo- presidente a Beppe Grillo. Ma il confronto è asimmetrico. Il fondatore del Mov5Stelle aveva una ragion politica evidente, data dallo sconquasso dell’antico sistema. E’ così anche per Zelinskij?
Qui emerge il doppio della televisione, il suo essere luogo perfetto della propaganda e insieme della manipolazione. Chi ha studiato il caso con cura, infatti, ci racconta che il “comico” è strettamente connesso ad una ragnatela di cui è forse solo il volto sorridente. L’oligarca Gerasimenko (per memoria dei tifosi di basket colui che nel 2015 acquisì la benemerita “pallacanestro Cantù”) e l’uomo forte Kolomojskij, tra l’altro proprietario del canale “1+1” che ospita la serie e pure chiacchierato banchiere, sono i riferimenti del nuovo magma ucraino. La televisione ha spiegato il “da chi, come, perché” sotteso alla vittoria ai seggi?
Vero, verosimile e falso corrono imperterriti nel flusso digitale.