Iran pigliatutto. Succede per lo meno al cinema, al Festival Middle East Now appena conclusosi a Firenze, dove sono ben tre su cinque i film vincitori della rassegna giunta quest’anno al suo decimo compleanno. E che ha avuto per tutta la durata del Festival un ospite d’eccezione, il due volte premio Oscar Ashgar Fahradi. Se sul piano politico l’Iran è tornato ad essere demonizzato dalla Casa Bianca come ai vecchi tempi, su quello culturale continua dunque a riscuotere interesse, curiosità e consensi.
Come è emerso dalla grande attenzione del pubblico per Fahradi, che introduce al pubblico i suoi capolavori – dal meno noto Fireworks Wednesday del 2006 ai capolavori più famosi: Una Separazione, About Elly, il Passato e Il Cliente. La sua masterclass è una serie di riflessioni artistiche e tecniche e un fuoco di fila di domande. “E’ spiacevole constatare che i media si interessano ad un Paese quando cominciano le notizie politiche negative”, osserva il grande regista. Per poi riconoscere che anche nel cinema iraniano si alternano fasi di maggiore e minore creatività, ma che “ora nella generazione più giovani vi sono molti tentativi di rinnovamento”. Si sofferma poi sulle questioni etiche senza facili scorciatoie affrontate nei suoi film: può esservi “una lotta non tra il bene e il male ma tra il bene e il bene”, dice di una scena chiave di Una separazione, dove i due coniugi che espongono al giudice le loro ragioni non a caso parlano in un unico piano sequenza, che conferisce ad entrambi lo stesso peso. La libertà, annota ancora Fahradi, “comporta responsabilità, ordine e capacità di perdonare”: dove non vi è libertà, anche la responsabilità è minore. “Nel cinema iraniano vi è una tendenza ad impiegare i fuori scena – prosegue -, e così anche nella pittura: molte cose accadono anche fuori da quel quadro”. E nei personaggi, come nella vita vera, “è spesso un momento di crisi che fa emergere una parte di noi, il nostro lato oscuro, che non sapevamo di avere”: come accade per la figura del marito de Il Cliente, uomo buono e benvoluto finché non scopre la violenza subita dalla moglie, e allora diviene ossessionato dalla volontà di vendetta. Girare un film all’estero la fa sentire più libero? Paradossalmente no, risponde, perché anche altrove cerco argomenti che abbiano a che fare con la mia cultura. E alla sua cultura come alla sua lingua, aggiunge in privato, si riconducono i finali aperti di molti film iraniani: una stessa frase in persiano, spiega, può avere diversi significati. Anche da qui, dunque, la caratteristica qualità di un cinema che non si presta mai ad una sola, univoca lettura, ma apre anche a tante possibili altre interpretazioni.
Il cinema iraniano non sta tuttavia vivendo la sua stagione più felice, e non solo perché gli autori hanno più difficoltà a reperire fondi in un’economia di nuovo in difficoltà per il ritorno delle sanzioni e l’aumento dei costi. “In realtà si trova in una situazione bloccata, un po’ come il cinema italiano – risponde l’attore italo-iraniano Babak Karimi, interprete di molti film di Fahradi, e che accompagna il regista nel suo soggiorno a Firenze – prima dominava il modello di Kiarostami, ora quello di Farhadi. Siamo in attesa di un nuovo corso”.
Realtà scomode e l’arte della sopravvivenza, dal Libano all’Afghanistan
Ma ciò non ha impedito proprio al cinema iraniano di fare man bassa di premi in questa edizione. Dimostrando ancora una volta di saper documentare una realtà nel Paese ben lontana dagli stereotipi negativi rinvigoriti dalla politica di ‘massima pressione’ dei falchi Usa, e dove l’espressione artistica – nonostante sia il ministero della Cultura e della Guida islamica a dare il via libera nelle sale – può documentare anche i problemi scomodi della società iraniana. Ad esempio quello della solitudine metropolitana dei tre protagonisti di Teheran, City of Love di Ali Jaberansari: due uomini e una donna che faticano a trovare un partner, tanto più se – come emerge per uno dei tre – l’amato è dello stesso sesso. “Ho cercato di rimanere al di qua della ‘linea rossa’ “ del rischio censura, commenta il giovane regista rispondendo ad una delle domande del pubblico che gremisce la sala. A lui, e alla sua capacità di raccontare anche con ironia la solitudine esistenziale dei personaggi, una Menzione speciale dal Festival. Ma sono due donne a raccogliere tre premi per i corti: una Menzione speciale per I Stay di Fatemeh Marzban e ben due riconoscimenti per Waterfolks Azadeh Bigarziti. La prima accompagna la vita semplice e faticosa dell’unico abitante di un’isola nel Mar Caspio che addestra splendidi esemplari di una razza autoctona di cavalli da corsa: il cortometraggio è un’immersione in una natura di inattesa bellezza, “che da piccolo mi faceva paura e ora sono arrivato ad amare”, dice il protagonista. Aggiungendo però anche un esplicito richiamo alla necessità che le autorità intervengano presto, per salvaguardare queste preziose risorse ambientali.
Azadeh Bigarziti ci porta invece al sud, sull’isola di Hangam nel Golfo Persico e sulle acque cristalline dove due donne, ogni giorno, si recano in barca a pescare per provvedere così alle necessità di tutta la famiglia. Sono donne pazienti e forti, avvolte in abiti coloratissimi sotto il sole cocente, pronte a rischiare la vita per le insidie del mare ma consapevoli che non vi sono riconoscimenti normativi né garanzie assicurative per il loro lavoro. E che hanno anche il merito, per noi osservatori lontani, di aprirci almeno in parte lo sguardo sulla pluralità etnica, geografica, culturale e religiosa che compone l’Iran di oggi: pluralità cui non sempre corrispondono pari livelli di sviluppo economico e sociale, e in cui qualcuno vede un tallone d’Achille per la capacità di resistenza di un sistema politico sotto attacco da più fronti.
Tra le altre proposte iraniane del festival – diretto da Lisa Chiari e Roberto Ruta – un breve stralcio di un promettente lavoro in progress: Radiography of a Family di Firouzeh Khosrovani, autobiografica ricostruzione di come la rivoluzione di 40 anni fa abbia potuto dividere al suo interno una famiglia.
Ma se di Iran si è tanto visto e parlato – anche in tre dibattiti fra sabato e domenica – Middle East Now ha ancora una volta proposto al suo ormai competente pubblico spaccati di cinema e società da diversi Paesi: dal Libano dei profughi siriani all’Arabia Saudita delle donne tra tradizione e modernità, dall’Algeria di una coppia di islamisti aspiranti attentatori all’Egitto, dalla Turchia all’Afghanistan. E proprio qui è approdato il Premio della Giuria per Kabul. City in the Wind di Aboozar Amini, poetico racconto di come a Kabul si sopravviva nella miseria nonostante tutto, protagonisti tre bambini e il loro padre, sempre affannato nel tentativo di riparare un vecchio bus destinato a non partire mai. Il Premio del pubblico è invece andato a Flavours of Iraq di Leonard Cohen e Feurat Alani.