Con Massimo Bordin sono andato tutti i giorni in ufficio: io guidavo e lui faceva la rassegna stampa, con uno stile sornione, colto e apparentemente disordinato. Come quando impostava il tono della voce in modo arrogante per ridicolizzare una dichiarazione che non condivideva; o cercava il pezzo che non trovava (“eppure era a pagina 10…ma ce la faremo…ah, eccolo qui”); o con la perenne tosse in cui affogava e riemergeva senza nemmeno riprendere fiato, costringendomi ogni volta ad una apnea empatica finché la sua voce cavernosa non tornava calma.
Non condividevo tutto quello che diceva, ma apprezzavo il suo sforzo di essere imparziale, concedendo ai suoi nemici giurati – Davigo, Travaglio e tutti quelli che non la pensavano come lui – qualche apprezzamento occasionale (“però qui non gli si può dar torto…”). Bordin era un giornalista dotato di una memoria militante, che usava per trovarne negli articoli incoerenze e imprecisioni. Finiva sempre in ritardo (“dobbiamo assolutamente chiudere…”), ma tutti sapevano che a lui era concesso sforare e a noi ascoltatori quei minuti in più facevano piacere. Lo mandavo a quel paese quando diventava fazioso e se mi faceva incavolare gli rispondevo parlando da solo. Insomma, quel Pasquino scanzonato e polemista indolente mi mancherà.