di Elisa Boni
Gabriele Bortolozzo nasce a Campalto nel settembre del 1934. Nel gennaio del 1956 comincia a lavorare come operaio alla Montedison, proprietaria del Petrolchimico di Marghera. Si sposa. Ha due figli. Lavora a contatto con gli operai addetti alla lavorazione del ciclo del CVM-PVC, quello della lavorazione del cloruro di vinile monomero, un gas che se debitamente lavorato si trasforma in cloruro di polivinile, il PVC, materiale plastico ancora adesso utilizzatissimo. Gabriele è una persona curiosa, che nonostante le turnazioni notturne in fabbrica non smette mai di leggere e di scrivere diari, appunti. Nei trentacinque anni in cui lavora lì assiste al deperimento e alla morte di decine e decine dei suoi colleghi, addetti alla lavorazione del CVM; da osservatore attento, comincia a farsi delle domande. Forse ne ha il sentore, ma ancora non ha del tutto realizzato di essere al centro di una delle più tragiche vicende della storia dell’industria italiana: l’avvelenamento da cloruro di vinile, una strage perpetrata per decenni all’interno del Petrolchimico.
Dai suoi appunti e dalle testimonianze dei sopravvissuti si deduce che al Petrolchimico non c’è nessun tipo di precauzione o misura di sicurezza, nessun modo per gli operai di proteggersi da tutta quella polvere bianca, che è nei polmoni di tutti loro, che sputano quando tornano a casa, che scrostano senza guanti ne tute quando scendono nelle vasche ed autoclavi piene di CVM.
L’inquinamento si comincia ad avvertire anche a Venezia, dove la gente si barrica in casa, chiude le finestre per la paura che la polvere entri dentro e che la tosse non finisca più. Gli anni passano e nel 1971 comincia finalmente a diffondersi l’allarme sul CVM, si comincia a parlare di pericolo di cancro. Mentre ad uno ad uno i suoi colleghi muoiono, lui va a casa delle mogli, delle famiglie, e chiede i referti medici, che comincia a conservare, uno ad uno. Due anni dopo, nel 1973, l’organizzazione mondiale della sanità categorizza ufficialmente il CVM come cancerogeno: i sospetti e le teorie su quella polvere bianca si rivelano fondati; Gabriele e i suoi colleghi cominciano a protestare per le condizioni di lavoro in cui sono costretti ad operare. Pochi anni dopo si dichiara obiettore di coscienza alla lavorazione di sostanze chimiche cancerogene, rifiutandosi di continuare a lavorare in quelle condizioni.
Il suo caso fa il giro dell’Italia, portandolo ad essere intervistato su Rai Uno, in cui richiede la messa al bando di queste sostanze cancerogene. La sua presa di posizione lo mette in una situazione difficile; viene osteggiato dai suoi capi e comincia ad essere visto come nemico dalla maggior parte del suo reparto, come una spia della concorrenza, come qualcuno che voleva togliere il lavoro a tutti gli altri. Diventa il capro espiatorio e le sue battaglie sono viste con sospetto; nonostante questo Gabriele non si arrende e continua a raccogliere referti e storie personali di suoi collaboratori al ciclo di lavorazione del CVM.
Nel 1994 insieme a Medicina Democratica presenta un esposto alla procura di Venezia e il pubblico ministero a cui capita quel dossier è Felice Casson, che legge incredulo il dettagliato resoconto di più di trentacinque anni di morti e di silenzio, di più di un centinaio di operai addetti al ciclo del CVM morti per patologie del fegato e dei polmoni.
A seguito dei contenuti di quei diari, appunti e fascicoli raccolti meticolosamente da Gabriele Bortolozzo, ventotto dirigenti del Petrolchimico sono accusati di strage, omicidio colposo, lesioni colpose per le morti di 157 operai e i 103 casi di malattia, e di disastro colposo, per aver avvelenato il suolo e le acque lagunari con gli scarichi. Nel 2001 in primo grado sono assolti tutti. In appello e poi in Cassazione le responsabilità di una minoranza di quei dirigenti verranno parzialmente riconosciute, ma ormai i reati sono caduti in prescrizione; uno scenario di sole vittime e nessun vero responsabile.
Gabriele Bortolozzo non sentirà mai la pronuncia, né la prima, né la seconda; morirà in un incidente stradale a Mogliano Veneto, nel 1995. Un uomo che non è stato il solo ma nella sua battaglia si è sicuramente sentito tale, osteggiato da capi e colleghi, denigrato dai più. Una persona che da anni chiedeva la messa al bando di una sostanza riconosciuta cancerogena e che nonostante questo veniva identificata come esagerato, allarmista. Un uomo che ha sacrificato la sua vita per avere un lavoro onesto, più sicuro, per sé e per tutti gli altri; una lezione che nell’Italia del “mi ammalo lavorando ma almeno così ho i soldi per pagarmi le cure”, è più attuale che mai.
Tratto da “Mafia come M. La criminalità organizzata nel Nordest spiegata ai ragazzi”