Il maledetto vezzo della distribuzione italiana di trasformare l’originale titolo “Can you ever forgive me?” della regista Marielle Heller – dall’omonimo libro di Lee Israel (1939-2014) cui il film si ispira – nel più anonimo e ondivago “Copia originale”, sottrae alla storia quel riferimento ipertestuale e letterario – nello specifico la straordinaria presenza di Dorothy Parker, vero e propriogenius animi della protagonista – senza il quale si smarrisce buona parte delle allusioni, delle sfumature e della fragranza di un film accattivante, sostenuto da una regia impeccabile e da una sceneggiatura (di Nicole Holofcener e Jeff Whitty) davvero notevole. Lee (Melissa McCarthy, ottimamente doppiata da Francesca “Heidi” Guadagno, si era più che meritatamente guadagnata una candidatura all’Oscar come miglior attrice protagonista) non certo una modella, cinquantenne, cicciotta con una evidente passione per l’alcool (che le costa pure il lavoro), i migliori anni alle spalle (o forse non ci sono mai stati), è una scrittrice specializzata in biografie.
Ma non riesce proprio a mettere ordine alla sua ispirazione (non pubblica da anni), alla sua casa assediata dalle mosche e dall’incuria e soprattutto ai suoi conti, visto che i suoi libri non solo non vendono ma sono in liquidazione: ad un umiliante ribasso del 75%. Nemmeno la sua vecchia gatta pare darle un po’ di conto. Qualche fugace apparizione alle feste (galanti) newyorkesi, organizzate dalla sua agente ed editrice – “le cui lettere hanno il calore dell’elenco telefonico” – nelle quali è assolutamente fuori posto: meglio allora ingozzarsi sul divano guardando vecchi film in bianco e nero con Bette Davis. Nella sequenze iniziali del film il sottofondo di una nostalgica e calda “Trought of you last night” (dalla voce di Jeri Southern) è il giusto contrappasso al suo serale squallore nella casa dell’Upper West Side dove Lee vive: e tutta la magnifica, sontuosa colonna sonora farcita di jazz, è il contraltare per calore e passione all’esistenza piatta e introversa di questa donna. Una vita che vira d’improvviso, allorquando durante una delle solite e noiose ricerche d’archivio alla New York Public Library, Lee si ritrova una lettera originale di Fanny Brice (una celeberrima attrice delle Ziegfeld Follies a Broadway, di cui vorrebbe scrivere la biografia) e la rivende. Da qui il colpo di genio: perché non falsificarne altre e di altri celebri scrittori con tanto di firma? Il talento è allora una serie di macchine per scrivere vintage, con le quali Lee comincia la sua carriera di falsi d’autore: da Noel Coward a Marlene Dietrich, da Louise Brook fino a quella stessa Dorothy Parker di cui Lee è grandissima estimatrice. Già: “il poeta è un fingitore”, ammoniva Pessoa e Lee sembra far decisamente sua questa massima, la sua esperienza poi di scrittrice le consente di entrare in quelle vite, farle proprie, sostituirle quasi alla sua. E’ così brava a scrivere lettere apocrife che “la sua Dorothy Parker è meglio della Dorothy Parker” originale. Le lettere vanno a ruba, contese da biblioteche antiquarie e collezionisti: i conti si sistemano, l’affitto pure e le sbronze sono finalmente di ottima qualità.
L’incontro con un vecchio amico gay, Jack Hock (un Richard E. Grant in forma smagliante) – “sei finocchio, vero?” taglia subito corto lei – le schiude un’amicizia e una complicità partecipe, litigiosa e alcolica: dagli innocui scherzi telefonici alla falsificazione e alla vendita, che diventano per i due una lucrosa attività a tempo pieno. Fino a quando ci mette lo zampino l’FBI e le cose precipitano: Lee, processata, viene condannata a cinque anni con la condizionale e posta agli arresti domiciliari, durante i quali comincia proprio a scrivere il libro che il film racconta (e il cui titolo è a sua volta tratto dalla citazione di uno dei “falsi d’autore”) mentre Hock, malato di aids, esce mestamente dalla sua vita. Insieme alla vicenda personale di Lee Israel, “Copia originale” raccoglie per brevi folgoranti sequenze anche il mondo impietoso e feroce delle case editrici e degli scrittori. Quando in una scena al vetriolo la sua agente le fa notare che “a Tom Clancy danno tre milioni di dollari per un libro pieno di stronzate di destra”, Lee rincara: “lui è il tipico maschio bianco inconsapevole di scrivere cazzate a bizeffe”. Le battute valgono più di un convegno accademico e di pagine di bibliografia. Ma c’è anche un altro aspetto che rende seducente la regia di Marielle Heller e la fotografia di Brandon Trost: nella rappresentazione visiva di New York – panorami crepuscolari e notturni, insegne al neon – che la tromba di chet Baker sottolinea in “Trav’lin’ Light” – strade, interni – “Goodnight ladies” di Lou Reed nella versione transgender di Justin Vivian Bond è una perla – la nostalgia perenne di Woody Allen, ovvio e inarrivabile riferimento (da “Manhattan” a “Io e Annie”), si è mutata in una tristezza lucida e stoica, nello sguardo disincantato di una donna disillusa che fa i conti con una vecchiaia che si avvicina sordida. Eppure quegli anni per Lee saranno maledettamente unici. E favolosi. “Let me tell you, now, goodnight ladies, ladies goodnight It’s time to say goodbye. Ah, all night long you’ve been drinking your tequilla rye. But now you’ve sucked your lemon peel dry…”