Nella sceneggiatura di La dolce vita si legge: “Al centro della pista Marcello e Sylvia ballano languidamente” e lui “tenendo le labbra sulla spalla nuda di Sylvia, furtivo e febbrile” mormora: “Perché sei venuta? Torna in America…Cosa faccio adesso io?”
Una dichiarazione d’amore struggente e quasi disperata per la bellezza fatale, frastornante, ineffabile, della creatura che stringe tra le braccia. Il protagonista è soggiogato, sedotto, rapito da Sylvia, l’attrice straniera sbarcata a Roma per interpretare una pellicola alla moda della Hollywood sul Tevere, come veniva chiamata Cinecittà in quegli anni dorati, in cui divi e registi d’oltre oceano si lasciavano allettare da un’Italia edonistica, “easy”, facile da vivere e a basso costo.
Fellini aveva visto la fotografia di Anita Ekberg sulla pagina di un rotocalco e l’aveva convocata per il suo nuovo film, avvolto ancora dal mistero, in cui l’attrice avrebbe dovuto interpretare null’altro che sé stessa, la propria emozionante epifania, l’incarnazione di una femminilità abbagliante e quasi divina. La svedese era stata immediatamente ribattezzata dai sovreccitati cronisti romani, “ghiaccio bollente” per le sue origini scandinave, leggendariamente trasgressive; ma anche per il candore luminoso della pelle che abbinato alle chiome biondissime accendeva l’aria intorno non meno del cuore degli ammiratori. Incessu patuit dea, poetava Virgilio, dall’incedere si rivelò una dea.
Fellini la tratteggiava come un essere mitologico: una ninfa, una semidea. E spiava le reazioni di Marcello, suo alter ego nel film, nella parte di un giornalista di cronaca mondana che trascorre le notti in giro per la città, stazionando insieme a un gruppo di fotoreporter nei caffè di Via Veneto in cerca di notizie, scandali, pettegolezzi dell’alta società. Avrebbe desiderato che Mastroianni condividesse il proprio entusiasmo nei confronti della svedese, ma l’altro non gli dava soddisfazione; si mostrava tiepido, indifferente, addirittura distaccato. “Da profonda conoscitrice di uomini – aveva notato Fellini – Anita, quando Marcello le fu presentato, gli tese distrattamente la mano guardando già da un’altra parte, e per tutta la sera non gli rivolse mai la parola. Più tardi Marcello, parlando d’altro, mi disse che la Ekberg non era poi questa gran cosa; gli ricordava un soldato tedesco della Wehrmacht che una volta, in una retata a Viale delle Milizie aveva tentato di trascinarlo su un camion per le deportazioni. Forse si era sentito offeso, trascurato; quella gloria di divinità elementare, quella salute da squalo, quel riverbero da solleone, invece d’esaltarlo lo avevano infastidito.”
Ma era solo una finta. Durante una cena di gala offerta dalla produzione, un bigliettino aveva preso a circolare tra le mani dei commensali morbosamente divertiti. Fellini riuscì a intercettarlo; era la replica scritta di Anita a una richiesta ben precisa del collega: “No, Marcello, io non fare pompetto.” Insomma la divina creatura si negava, almeno a parole, a certe prestazioni erotiche; forse sdegnata che la proposta non le giungesse nella sede e nelle forme opportune.
Erano i tempi eroici di un Olimpo che scendeva capricciosamente tra i mortali.
A fine carriera la Ekberg viveva in una grande villa dei Castelli Romani, alla periferia di Genzano. Mi ci recai per concordare la sua partecipazione a un progetto cinematografico su Fellini che stavo realizzando; e in seguito l’ambientazione fu scelta da Federico per girare la famosa sequenza del film Intervista, in cui Mastroianni in costume di Mandrake, con un tocco della sua magica bacchetta “fa rivivere i bei tempi del passato”. Anita per la survoltata fantasia maschile aleggiava in un empireo a sé, irraggiungibile: si favoleggiava che la lussuosa dimora nella quale abitava le fosse stata regalata da Gianni Agnelli di cui era stata l’amante; anzi era noto a tutti che quella coppia di impareggiabile splendore e mondanità internazionale facesse l’amore soltanto nel jet privato dell’Avvocato, ad altissima quota, nella tratta Roma -Torino, o viceversa. Chissà se è vero, Federico lo dava per certo, ma lei non ne fece mai parola in pubblico e ormai è troppo tardi per saperlo.
Nel parco della villa disseminato di ulivi, si aggiravano inquieti e per nulla rassicuranti due mastodontici alani arlecchini, dal manto bianco pezzato di macchie nere; quando arrivammo il loro latrato scoraggiava la troupe a uscire dalle macchine, ma la voce di Anita, perentoria, li aveva rapidamente ridotti a cuccioloni inoffensivi.
Mi tornavano in mente i racconti di Fellini, elegantemente sfumati, da gentiluomo, ma non al punto di non lasciar trasparire l’eccezionalità di una esperienza ravvicinata. Descriveva la bionda svedese come una creatura mitologica del Walhalla, dal corpo fastoso e scultoreo, la carnagione così bianca e diafana che “emetteva luce anche al buio, come fosse avvolta in un alone”. La vichinga aveva proporzioni statuarie, per possederla bisognava disporre dei muscoli di un gladiatore: “Ci vorrebbe una schiena possente, da atleta, come quella di Gassman”, continuava Federico enfatizzando la descrizione, e concludendo che “insieme alla schiena, anche il resto doveva essere adeguatamente commisurato”.
I suoi disegni riproducono Anitona simile a un’ammaliante orca marina pronta a divorarti. Eppure il regista si inteneriva per la sua indole infantile, inconsapevole, da gigantessa disarmata, assuefatta all’assedio incessante degli uomini, al loro desiderio irrefrenabile.
Nell’intervistata che girai per “I protagonisti di Fellini”, la Ekberg utilizzò con me un tono supponente, apertamente polemico: “Dicono che mi ha creata Fellini, mia madre mi ha creata, non Fellini. Quando lui mi ha chiamato io ero già famosa per tutti i film interpretati in America”. Voleva prendere le distanze dalla prigione dorata di un personaggio “larger than life” dal quale non riusciva ad evadere. Per altri versi fu sincera, mi confidò con occhi di ghiaccio di aver sempre sofferto il complesso della propria eccessiva avvenenza. Era timidissima, insicura. Quando entrava in un locale e si sentiva scrutata, frugata dagli sguardi maschili, il disagio era così forte che stringeva i pugni fino a ferirsi con le unghie i palmi delle mani. Temeva in cuor suo di avere qualche dettaglio fuori posto, “uno strappo del vestito, una smagliatura nelle calze”. Dio mio, quanto poco ci conoscono le donne! Ed è la nostra impagabile fortuna. Se avesse saputo Anita quale sgomento provocava col suo solo apparire, quale religiosa venerazione! La stessa che conduce Mastroianni a uno stato di estatica esaltazione quando lei lo chiama già immersa nella Fontana di Trevi: “Marcello, come on!” E lui vestito di tutto punto, in abito da sera, la raggiunge inoltrandosi incurante nell’acqua.
«Se mi si chiede della Dolce Vita, – scrisse in seguito Fellini – come nel test delle associazioni rispondo subito: Anita Ekberg! A distanza di trent’anni il film, il suo titolo, la sua immagine, anche per me, sono inseparabili da Anita. Era di una bellezza sovrumana. La prima volta che l’avevo vista in una fotografia a piena pagina su una rivista americana: “Dio mio”, pensai, “non fatemela incontrare mai!”. Quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità che si prova davanti alle creature eccezionali come la giraffa, l’elefante, il baobab lo riprovai anni dopo quando nel giardino dell’Hotel de la Ville la vidi avanzare verso di me preceduta, seguita, affiancata da tre o quattro ometti, il marito, gli agenti, che sparivano come ombre attorno all’alone di una sorgente luminosa. Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente. Voleva sapere del copione, se il personaggio era positivo, chi erano le altre attrici, e intanto beveva un bicchierone di quei cocktails pieni di colori bandierine pesciolini e parlava con una vocina da bambina raffreddata che la rendeva ancora più sconvolgente. Mi sembrava di scoprire le idee platoniche delle cose, degli elementi, e in un totale rincoglionimento mormoravo fra me e me: “Ah, ecco, questi sono i lobi delle orecchie, queste sono le gengive, questa è la pelle umana”».
Qualche anno dopo aver realizzato con l’attrice La dolce vita e Le tentazioni del dottor Antonio (episodio di Boccaccio ’70), Federico l’aveva sognata:
23.11.’66: «Faccio l’amore con N. e Anita. N. è su di me ma il mio membro è infilato nel ficone di Anita che finalmente vedo godere. Ah! Che gioia, il suo limpido occhio di bambina viziata e crudele, si appanna nell’orgasmo, la palpebra si abbassa come a velarne l’estatico godimento… Finalmente!»
La donna irraggiungibile, è raggiunta con la mediazione dell’altra, che non dirò chi fosse malgrado non sia difficile risalire al suo nome.
Un regista visionario come Federico ha sempre dato voce e immagine a quel magazzino dell’oscurità in cui ognuno di noi si aggira di notte; e non di rado visita anche di giorno senza alcun preavviso, a occhi aperti, pur non osando spesso richiamare i fantasmi in superficie, per mancanza di strumenti adeguati o di talento, oppure per semplice timore di incrinare la propria integrità esteriore, la propria rispettabilità.
Non è per questa ragione che esistono gli artisti, chiamati a sognare per tutti noi? Non sono le loro opere uno specchio in cui ciascuno può riconoscersi senza vergogna?