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Venezuela: una notizia buona e una cattiva

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Dopo la battaglia sugli aiuti americani, in Venezuela nessuno avanza e nessuno retrocede. La rabbia ha smesso di straripare nelle strade, lo scontro tra i partigiani delle opposizioni e quelli del governo rifluisce in trincea: si combatte con i colpi di mano, l’incursione improvvisa, l’attentato notturno, lo sparo mirato del cecchino. Peggio che torbida, la crisi odora a veleno. I già pochi e isolati contatti negoziali appaiono ammutoliti e sfibrati. Il paese si morde le viscere, come disse Garcia Lorca della Spagna alla vigilia della guerra civile. Ma in quella punta di Sudamerica non c’è un esercito coloniale, né appare nessun caudillo in divisa deciso al tutto per tutto. Al contrario, anche quanti avevano avventurosamente scommesso sull’intervento armato affermano di essersi ricreduti (vedi il presidente della Colombia, Ivan Duque): quest’ ultima è la buona notizia.

Quella cattiva, oltre che nello stallo d’ogni approccio negoziale, sta nell’inadeguatezza e nell’inattendibilità (per dirlo in termini rispettosi della gravità della situazione più che dei loro responsabili) dei massimi protagonisti della crisi e di non pochi osservatori internazionali, compresa la maggior parte dei giornalisti. L’aperta e reiterata minaccia d’intervento militare diretto espressa da Donald Trump, sommata all’autoproclamazione di Guaidó a capo di stato provvisorio e all’operazione soccorsi sono state fatte acriticamente proprie dai maggiori paesi sudamericani ed europei. E celebrate dalla grande informazione. Nell’ignoranza presso che totale dei gravi e palesi rischi per le persone e le violazioni del diritto internazionale. Confondendo i propri desideri con la realtà. Che è quanto di più pericoloso per tutti possano fare dei governi.

Ora che le illusioni sono evaporate alla prova dei fatti, nessuno sa più quali iniziative prendere. Ma neppure questa inerzia seguita alla massima tensione può durare a lungo. E resta anch’essa carica di rischi. Come, se mai ve ne fosse bisogno, dimostrano gli ultimi avvenimenti, l’uso strumentale che se n’è fatto e le conseguenti polemiche. Risulta che il camion presuntamente carico di medicinali incendiato alla frontiera colombiana non è stato distrutto dalle milizie di Maduro, bensì dalla bomba-molotov lanciata involontariamente sull’automezzo da un sostenitore di Guaidó. E’ la conclusione a cui è giunta un’indagine Il New York Times, che ha dimostrato inoltre come il camion trasportasse materiale igienico-sanitario, guanti e mascherine di plastica, e non farmaci. Disperazione e disorientamento possono indurre a gesti inutili cosi come ad altri irrimediabili.

Il gigantesco black-out che nei giorni scorsi ha lasciato senza elettricità mezzo Venezuela, paralizzando fabbriche, ospedali, scuole, non è stato ancora del tutto riparato. Un altro duro colpo alla vivibilità quotidiana. Maduro parla di attentato e date le circostanze l’ipotesi non appare irragionevole. Tuttavia non vi sono prove. Nondimeno il governo ha fatto arrestare un giornalista, Luis Carlos Diaz, accusandolo genericamente di “istigazione a delinquere” soltanto per aver criticato l’inefficienza del governo, tra l’altro in tema di energia. Oltre alle difficoltà epocali che la falcidiano ovunque, in Venezuela l’informazione deve anche fronteggiare l’estrema polarizzazione prodotta dalla frattura sociale e la permanente eccezionalità che ne deriva per il suo lavoro. La generale esasperazione gioca anche contro le migliori intenzioni. Delle altre non è necessario dire.


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