Federico e Tonino insieme sono stati per me una sorpresa, perché mi sono apparsi come una coppia di comici da circo in cui i ruoli preesistevano a priori: Fellini il Clown Bianco, serioso, impaziente, sprezzante, Guerra l’Augusto, eterna spalla, soccombente e beffardo. L’uno alto e imponente, l’altro minuto e di statura non elevata. L’uno incline a un italiano estroso, immaginifico, l’altro appagato di parlare in dialetto romagnolo. Con questo canovaccio invisibile di ruoli assegnati, procedevano a ruota libera come nella commedia dell’arte. Nello speciale su “Amarcord” interpretano uno sketch da attori consumati. Fellini deve rilasciare un’intervista a un’avvenente giornalista tedesca che si è presentata nel suo ufficio e così coinvolge come traduttore Tonino Guerra, che essendo stato prigioniero in Germania sostiene sfrontatamente di conoscere benissimo la lingua. Tonino si presta di buon grado perché attratto dalla bella straniera, però non capisce una sola parola delle sue domande e si inventa la traduzione, gioca sugli equivoci, dialoga a sproposito. Fino a quando non viene apertamente smascherato e ammette che forse sono passati troppi anni dalla prigionia e la lingua si è un po’ arrugginita. Così tutto finisce in una burla tra compagni di scuola scanzonati.
Tonino per Fellini era la Romagna, quindi l’infanzia, quindi la memoria di una stagione lontana in cui il suo alter ego Moraldo (protagonista de I Vitelloni) aveva preso il treno per andare a Roma, voltando le spalle al Borgo. Tonino per Federico rappresentava tutto questo, un sentimento da evocare unicamente attraverso la fantasia.
Anche Guerra a un certo punto aveva lasciato la Romagna per correre l’avventura del cinema nella Capitale, ma con un biglietto di ritorno in tasca, senza mai mollare veramente gli ormeggi. Ed era quindi prezioso per Fellini, in quanto gli portava la propria Terra a domicilio, dentro Cinecittà.
Da riminese della costa Federico trattava Tonino originario di Sant’Arcangelo, nell’entroterra, come il cugino di campagna. Un giorno aveva preso la matita e aveva disegnato una carovana di portatori neri che a un bivio, davanti alla freccia segnaletica SANTARCANGELO KM.10, posano i pesanti involucri a terra: “Gli indigeni si rifiutano di proseguire”, spiega la guida all’esploratore bianco. Una vignetta da Marc’Aurelio che ironizzava su quel territorio ai confini del mondo civilizzato da cui proveniva il suo sceneggiatore. Il gioco pervadeva anche il lavoro, e per Federico Amarcord era un “filmetto” scritto in pochi giorni per divertimento. E quando Guerra aveva insistito per pubblicare il copione da Bompiani, il successo di vendite ottenuto da quella sorta di ‘novelization’ ante litteram aveva sbalordito entrambi. A un giornalista maligno che gli domandava come mai “Amarcord”, un film provinciale, fosse riuscito a vincere il Premio Oscar, il regista aveva replicato sornione: “Forse la provincia di Rimini nel frattempo si è talmente allargata, senza che io me ne fossi accorto, che gli spettatori di tutto il mondo sostengono di riconoscervi la propria infanzia.”
In seguito a quel trionfo inaspettato anche Tonino Guerra, che pure da decenni collaborava con altri famosi registi, da Antonioni a Rosi, a Tarkovskij, a Angelopoulos, acquistò un’improvvisa notorietà. Il suo universo poetico divenne ‘familiare’ agli italiani. Il suo talento tracimò in mille rivoli, con disegni, dipinti, ceramiche, ‘istallazioni’; ripenso a quelle due lapidi, con sopra i nomi di Federico e Giulietta, che il poeta volle interrare sulla sommità di Petrella Guidi perché i suoi amici potessero dominare la Valmarecchia accarezzati dal sospiro del vento.
La mia amicizia con Tonino si strinse al tempo del Casanova, quando fui chiamato da Fellini a dirigere un film di backstage sul progetto cinematografico che si era incagliato nelle consuete beghe produttive. Dovevo mettere insieme un ventaglio di personaggi che aiutassero a decifrare la natura dell’amatore veneziano, da Federico assai poco amato, e spiegassero in che modo le sue qualità magniloquenti e un po’ cialtronesche fossero rifluite nel sangue dei moderni latin lover. Guerra propose di intervistare un giovanotto del suo paese che pretendeva di essere uno sciupafemmine instancabile e di aver conquistato ben cinquecento donne, il doppio di Casanova; il suo nome d’arte, in francese maccheronico, era Rinò De Burre, con qualche indecente allusione al lubrificante di ‘Ultimo tango a Parigi’. Tonino si prestò spiritosamente a improvvisare davanti alla macchina da presa un gustoso siparietto a spese dell’improbabile personaggio, che avevamo convocato a Roma e che divertì molto Fellini. Il poeta era nel pieno dei suoi cinquant’anni, colmo di vitalità, di gioia di vivere, in una stagione spumeggiante intrisa di allegria. Si faceva voler bene, Tonino, e Federico gli era legatissimo.
Quando il suo tempo arrivò a scadenza, a molti sembrò un amaro controsenso, come se da un momento all’altro dal suo giardino di Pennabilli fossero scomparsi i mandorli che all’inizio della primavera sommergevano la casa di una nuvola di petali bianchi. Guerra ci aveva abituato, un po’ per volta, a considerarlo indistruttibile, simile all’uomo delle favole che appare quando lo evochi. Lui stesso ha contributo con astuzia e sapienza a costruire questa leggenda, scegliendo per la sua lunga e felice vecchiaia una cornice adatta al suo stile, una residenza in cima a un cucuzzolo in bilico tra Marche e Romagna, dove bisognava arrampicarsi per raggiungere il saggio della montagna. Con una pennellata di colore simile alle sue figurine naif, si era messo accanto un labrador color del miele, un’educata rappresentanza di gatti, e una moglie russa, Lora; che non è Lara del dottor Zivago soltanto per il cambio di una vocale.
Dal suo eremo, dopo aver lasciato Roma e rinunciato a rientrare stabilmente a Sant’Arcangelo, Guerra ha distribuito poesia a profusione, a manciate, con gesti ampi da provvido seminatore, donando magica sostanza alle invisibili molecole dell’aria dell’intera valle, ai sassi, agli alberi, ai corsi d’acqua. Aveva provato a convincere la gente che la poesia non è soltanto quella che si legge nei libri, ma è la misura del nostro sguardo, la rivelazione del creato, e il suo rispetto. Aveva insegnato a utilizzare la poesia anche come un medicamento, una profilassi contro la bruttura che ci circonda. E aveva recuperato “il giardino dei frutti perduti”, un orto di rari alberi da frutta scomparsi ormai dalle campagne, e dunque dalla vista e dal gusto degli uomini. La sua idea aveva ottenuto un avvampante successo; venivano da tutta Italia a visitare il giardino incantato, scoprendo che la cancellazione dei frutti stava ad annunciare una sciagura non meno grave delle pagine strappate via da un dizionario. Dalla Valmarecchia la poesia di Tonino Guerra si propagava a onde circolari verso l’intero Paese: ci esortava a imparare da capo a guardare il mondo attorno a noi, con diversa attenzione e carità, con altro rispetto, respingendo ogni abuso, ogni stupro insensato della natura, ma anche dell’opera dell’uomo quand’era ancora in armonia con l’ambiente. Era sua convinzione che fosse possibile salvare il creato iniziando con il preservarne la bellezza, in tutte le possibili espressioni, e per molti è diventata il contrafforte di una resistenza pacifica da opporre all’invasione della nuova barbarie.
“Abbiamo bisogno di incontrare il mistero, i misteri sono i luoghi dell’anima.” Ripeteva Tonino nelle riunioni pubbliche. E credeva anche lui, come il principe Miškin ne “L’Idiota” di Dostoevskij, che “la bellezza che salverà il mondo”.
Sono andato a ritrovare in libreria un suo piccolo regalo, un libretto senza nome di dieci centimetri per dieci, scritto a mano e trattenuto con uno spago; contiene le brevi sentenze, associate a qualche disegnino, che Guerra ha assegnato a ogni mese dell’anno. Quella di marzo recita: “I fiori dei mandorli per le api affamate.” Marzo è il mese di Tonino, della sua nascita e della sua scomparsa, e per fortuna le api affamate dei suoi fiori continueranno a comporre uno sciame sempre più numeroso attorno al giardino della sua casa.
Guerra, che ostentava di essere una coscienza laica, aveva messo alle strette l’anziano contadino suo amico: “Insomma Eliseo, il Padreterno c’è o non c’è?!” Ma la risposta era arrivata con la limpidezza di un oracolo: “Cosa vuole, se le dico che c’è, mi sembra una bugia; ma se le dico che non c’è mi sembra una bugia ancora più grande.”
Dopo un brutto inciampo di salute il poeta si era attrezzato con la minuscola icona di San Serafin da tenere accanto a sé sul comodino; una figura religiosa ignota ai più: “Era un piccolo santo, anche mezzo gobbo, parlava con gli orsi e dava loro il miele; mi chiedo se non sia più lui ad aver bisogno di me, ma la notte mi tiene compagnia”. L’umile santo vegliava sorridente, era l’amico buono dell’Aldilà a cui Tonino aveva affidato i suoi giorni, e che al momento giusto avrebbe raccolto la sua anima per guidarla lungo i sentieri celesti. Quando alla fine ha capito di essere ormai giunto sulla soglia, aveva sussurrato a Lora: “Fatemi passare dolcemente da una stanza all’altra”.