Era partito col piede sbagliato l’evento degli Stati Generali dell’Editoria, ma ha avuto un’evoluzione persino peggiore del previsto. Il primo errore ha riguardato il pasticcio degli accrediti per i giornalisti, poi si sono contate le assenze eccellenti, i nomi dei “non invitati” o dei “non graditi”, tra cui spiaccano proprio i diretti interessati ai tagli ai contributi per il pluralismo del’informazione. Inoltre sono stati tenute a debita distanza anche molte associazioni che da sempre si occupano di mantenere spazi per la pluralità delle voci, tra queste sarebbe fin troppo semplice includere Articolo 21 e Libera Informazione. Sia come sia, l’avvio della stagione del super confronto sul futuro dell’informazione in Italia si è distinto per le lacune oltre che per certe affermazioni perlomeno imprecise del sottosegretario Vito Claudio Crimi. La giornata del 25 marzo andrà comunque ricordata il gioro in cui questo oscuro momento di democrazia sarà solo un appuntamento passato e lontano. Riassume bene l’accaduto una felice frase di Vincenzo Vita: “Gli Stati Generali, quando se ne parlò, avrebbero doviuto avere ben altro carattere. Non un incontro tra addetti ai lavori, con inviti centellinati come si trattasse di un segreto di Stato, bensì con il più vasto coinvolgimento del mondo culturale, intellettuale, tecnico”. Invece ha prevalso la logica della conclave, dove la voce più importante è stata “la voce del padrone”, se è vero, come sembra, che il Governo si sente padrone dell’informazione. Ad aprire la sfilza di critiche poche ore prima dell’avvio dei lavori è stato Lorenzo Palmisano vicepresidente di CulturMedia di Legacoop e dunque la voce della cooperazione nei media: “Rattrista dover constatare che il mondo giornalistico cooperativo non è stato invitato a parlare. E rattrista ancor di più la sottovalutazione, oggettiva, della storia del movimento cooperativo come portatrice di evidenti questioni di legittimità democratica nel settore editoriale. Il tema dell’informazione, in una fase nella quale è diventato difficile far sopravvivere i giornali e i giornalisti, va affrontato in tutte le sue sfaccettature, conservando il rispetto del pluralismo e del principio di laicità”. E anche Radio Radicale aveva fatto notare di non essere stata invitata, pur rappresentando il simbolo degli organi di informazione che verranno travolti dai tagli al fondo sul pluralismo. D’altro canto il solito sottosegretrio Crimi, in un’intervista di pochi giorni fa al sito TvSvizzera, ha affermato: “Radio Radicale è una radio privata, per di più rappresentativa di un partito politico. Radio Radicale è ancora la voce del Partito Radicale che comunque è presente nelle sue varie sfaccettature nelle elezioni politiche. Quindi è una radio privata che ha vissuto negli ultimi vent’anni di una convenzione con il Ministero dello sviluppo economico per diramare la diretta delle attività istituzionali. Per la quale ha ricevuto un contributo di quattordici milioni di euro l’anno, questo è il quantum. Ora, se a un certo punto il soggetto pubblico decide di interrompere quella convenzione, non sta chiudendo Radio Radicale, non sta chiudendo la voce di Radio Radicale, sta soltanto interrompendo un rapporto convenzionale”. Che Radio Radicale sia tutt’altro è noto a tutti e che abbia trasmesso ciò che altrimenti non si sarebbe potuto ascoltare è altrettanto noto. Eppure circolano queste affermazioni “autorevoli” a latere degli Stati Generali. Ciò che è emerso ieri in realtà appare una sorta di vendetta contro taluni media e, in generale, verso chi fa informazione.
Per esempio a proposito de Il Manifesto il sottosegretario Crimi ha detto: “… ha 3,5 milioni di contributo statale su 4,5 milioni di fatturato. Sto cercando di portare avanti un progetto per far sì che il Manifesto possa stare sul mercato da solo. Se Il Manifesto sul mercato da solo non riesce a starci, allora darà il suo contributo nel Stati Generali per dirci come stare sul mercato, ma un giornale che ha 4,5 milioni di ricavi e 3,5 milioni di contributo non può reggere, di fronte a tante altre testate che non hanno contributi”. Da queste parole è chiarissimo il concetto di fondo che si vuole affermare: il pluralismo dell’informazione potrà esistere se il mercato lo consente altrimenti se ne farà a meno, dunque la democrazia sopravviverà se se la potremo autofinanziare, l’esatto contrario del principio su cui fondava la legge sul fondo per l’editoria.
Ma se sui contributi si è visto questo spettacolo deludente, è andata peggio per quanto concerne l’altro nodo, ossia la modifica della legge sulla diffamazione per bloccare le azioni temerarie e le querele bavaglio. Ecco cosa ha detto il Presidente del Consiglio: “Spesso ci sono iniziative giudiziarie che rischiano di creare soggezione ma serve cautela perché esiste la libertà di informare ma anche la tutela della persona”. Le azioni legali temerarie, come il Presidente certamente saprà, sono del tutto svincolate dalla tutela della persona fisica o giuridica, esse vengono presentate per imbavagliare l’informazione, non per sanare una lesione, altrimenti non sarebbero “temerarie”.
E infine: all’apertura degli Stati Generali, come più volte sottolineato, seguiranno altre giornate da qui a settembre prossimo, quando dovrebbe arrivare la proposta definitiva. Ma a settembre molti dei media coinvolti in questo dibattito avranno già chiuso e si sarà concretizzato l’auspicio del sottosegretario, avrà cioè vinto il mercato e perso la democrazia.