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Stanley Kubrick e il pessimismo della ragione

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Vent’anni senza l’arte e il genio di Stanley Kubrick. Vent’anni senza la sua capacità di esplorare tutti i linguaggi e di raccontare le molteplici sfaccettature dell’animo umano. Vent’anni e ci troviamo oggi a riguardare i suoi film, a considerarli giustamente dei capolavori e a riflettere su un tempo e su un mondo che non ci sono più, sulla fine di una certa stagione, di una certa concezione del cinema, di quell’America progressista che a lungo abbiamo amato.
Kubrick, scomparso a soli settant’anni, ci ha dato da allora, da quel triste 7 marzo 1999, l’amara sensazione di un capolavoro interrotto, di una sceneggiatura incompleta, di una meraviglia visionaria fermata sul più bello dalla più atroce delle beffe, con un cuore troppo fragile per sopravvivere alle emozioni di questo mito senza tempo che ha saputo resistere ai graffi della storia e dell’oblio, ritagliandosi un posto di diritto tra i giganti.
Dire Kubrick equivale a dire avventura, cultura, coraggio, conoscenza, forza d’animo, vitalità, saggezza e irriverenza; equivale a parlare di libertà, di autonomia di pensiero, di senso del limite e della giustizia, di infinito e d’immenso, di poesia e d’azione.
Nulla nelle sue opere era mai scontato, nulla o quasi era stato mai tentato prima. Kubrick ci ha posto di fronte ai pericoli della tecnologia e della sopraffazione di essa nei confronti dell’uomo già nel ’68, quando con “2001: Odissea nello spazio” costituì una stecca nel coro del conformismo che inneggiava alle grandi conquiste spaziali, alla vigilia dell’allunaggio del ’69 e mentre la febbre positivista imperversava pressoché ovunque.
Come tutti i visionari, Kubrick espresse il pessimismo della ragione, ammonendoci sulle conseguenze della scomparsa dell’uomo dal centro del progresso e sulle possibili, apocalittiche ricadute di un eccesso di fiducia nello sviluppo delle macchine. Il che non lo rendeva certo un luddista moderno o un nemico di qualsivoglia forma di avanzamento tcnologico bensì un analista attento della società contemporanea, capace di porre la propria attenzione anche su un altro tema cruciale come la violenza, portando al culmine il genere della fantascienza sociologica e coniando un’espressione, “Arancia meccanica”, destinata a restare nell’immaginario collettivo e a trasformarsi in un modo di dire.
Un genio compreso, dunque, un maestro destinato all’eternità, senza presunzione né pregiudizi, amato in tutto il mondo per opere come “Shining” e “Barry Lindon”, “Orizzonti di gloria” e molte altre ancora, fino a comporre un quadro di splendore e denuncia socials che ha rivoluzionato il Novecento e messo in crisi molteplici canoni interpretativi.
Non ha mai ingannato nessuno, Kubrick: da qui il rispetto unanime che si è guadagnato e la candidatura all’immortalità che spetta solo a coloro che riescono a lasciare il segno.

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