Questa mattina, mercoledì 6 marzo, alle ore 10.30, si riunisce al settimo piano di Viale Mazzini il Consiglio di Amministrazione della Rai, chiamato a discutere ed approvare il “piano industriale” della radiotelevisione pubblica italiana per il triennio 2019-2021, documento le cui prime tracce di vita sono emerse a fine gennaio (come abbiamo anticipato su “Articolo21” del 1° febbraio 2019, “Rai, al via il nuovo ‘piano industriale’, ma resta una discreta confusione”).
Si tratta senza dubbio di un documento importante, come ben si comprenderà, ma la discussione è rimasta chiusa nelle segrete stanze del “settimo piano”.
Si pone subito un quesito metodologico e politico: perché cotanta segretezza?!
È senza dubbio vero che un “piano industriale” può contenere informazioni riservate, che, se rese di pubblico dominio, potrebbero avvantaggiare la concorrenza (ovvero Mediaset e La7 e Sky ed altri “player” minori,) ma va rimarcato che Rai è (dovrebbe essere) un soggetto altro e differente, rispetto a quelli che operano sul “libero mercato”.
Chi redige queste note è convinto che l’interesse pubblico – l’accesso alle informazioni ovvero la trasparenza – dovrebbe prevalere su altre esigenze: peraltro, per la prima volta nella storia della Rai, è stato uno stesso consigliere di amministrazione ad aver sostenuto, in questi giorni, che questa “segretezza” dovrebbe essere messa in discussione. In un post sulla sua pagina Facebook, Riccardo Laganà, membro del Consiglio di Amministrazione Rai eletto dai dipendenti, ha scritto, il 26 febbraio scorso: “Voci dal silenzio. Non mi sento trasparente, nemmeno opaco per onestà, ma certamente non trasparente come vorrei essere. Tutto riservato e confidenziale, tutto troppo riservato e confidenziale. Ma confidenziale con chi poi? La confidenza, un segreto, una confessione la riservi agli amici, ma anche sforzandomi ne vedo pochi, molto pochi. Regolamenti consiliari e statuti che risalgono a tempi antichi da rivedere con urgenza, regole stagnanti, che sono rifiuti speciali di un’azienda che vorrebbe tornare sana al servizio del pubblico”. Parole dure. Dopo questa premessa ideologica, precisa: “Ora, con tutto lo sforzo di immaginazione, anche andando a rileggere i grandi autori che raccontano di spie e di 007 non riesco ad immaginare un motivo concretamente valido per tenere segreto un Piano Industriale. Siamo azienda che vive di soldi pubblici, abbiamo obblighi specifici nei confronti di chi paga il canone, e siccome nel contratto di servizio non c’è scritto da nessuna parte che il piano debba essere segretato fino alla presentazione agli organismi competenti, non si capisce perché non lo si rende pubblico?”.
In sostanza, un onorevole membro del Cda Rai si domanda perché tutta questa segretezza intorno al “piano industriale”. Ed ha ragione. Le sue perplessità sono condivisibili, perché la trasparenza – che deve caratterizzare un ente pubblico o comunque una società come la Rai – dovrebbe essere la regola aurea di chi la governa. In assenza di trasparenza, nel deficit di informazioni, allignano le pratiche basse (spartizione del potere), e finanche – in caso di deriva patologica – la corruzione.
Come è noto, questo “piano industriale” Rai ha una gestazione che si trascina da mesi.
Come è noto, la Rai ha ritenuto di “appaltare” all’esterno il lavoro tecnico di predisposizione del “piano”: premesso che siamo convinti che Viale Mazzini abbia invece tutte le risorse interne per elaborare un simile documento, risulta che la multinazionale americana della consulenza Boston Consulting Group alias Bcg abbia ricevuto un appalto da 500mila euro, per “accompagnare” Presidente ed Amministratore Delegato nella elaborazione di questo documento strategico.
Bsg (fatturato 2017 di oltre 6,3 miliardi di euro a livello planetario) ha prevalso rispetto alla concorrenza di Arthur D. Little e di McKinsey (che ha assistito Rai nel “piano industriale” 2013-2015 e nel successivo triennio 2016-2018). Quanto Rai spenda esattamente per le consulenze sul “piano industriale” non è esattamente chiaro. Per esempio, secondo i dati dell’albo fornitori Rai, a fine 2016 fu messo a gara un “servizio di supporto per l’elaborazione del piano industriale”: parteciparono A.T. Kearney Italia, Accenture, Bain & Company, McKinsey, Booz & Company, Accenture, e l’aggiudicazione andò a favore di Accenture spa, per 152.000 euro, per una consulenza prestata nell’arco di poco più di 1 mese (uno!), dal 22 dicembre 2016 al 2 febbraio 2017. Incarico classificato da Rai stessa come “affidamento in economia / cottimo fiduciario”. Un incarico simile denominato “servizio di consulenza linee guida piano industriale 2018/20” è stata assegnato, per il periodo dal 12 marzo 2018 al 7 luglio 2018 (4 mesi di lavoro) a The Boston Consulting Group (Bcg) per 190.000 euro… In questo caso, Bcg ha vinto su A.D. Little, Bain, McKinsey, Long Terme Partners…
Naturale sorge il quesito: ma perché una azienda come Rai deve mettersi nelle mani di una multinazionale americana?!
Il quesito è però forse retorico, perché ormai da molto tempo in Italia imprese pubbliche – da Cassa Depositi e Prestiti ad Alitalia – si affidano a questi “super-consulenti” stranieri, che spesso sono dei giganti dai piedi di argilla (per chi ha avuto chance di conoscerli dall’interno). In tempi di “sovranismo”, peraltro, forse un conato di orgoglio “nazionalista” dovrebbe emergere, anche in queste pratiche. Secondo alcuni osservatori, il potere di influenza di queste multinazionali finisce per contare più dei consigli di amministrazioni…
Accantoniamo la questione… “metodologica”, e veniamo al racconto di cosa succederà questa mattina: se nella riunione del Cda del 14 febbraio era stato presentato ai consiglieri un documento di 51 pagine (senza 1 dato uno di natura budgetaria, e ciò la dice lunga), nella riunione informale di lunedì 4 marzo (una sorta di pre-consiglio), i consiglieri si son visti consegnare un tomo di 280 pagine (zeppo di dati) integrato da 5 allegati per complessive altre 260 pagine.
Spontaneo sorge il quesito: ma come è possibile, per un essere umano normale, non dotato di super-poteri, leggere analizzare studiare un simile documento a distanza di 48 ore dalla riunione consiliare nel quale il “piano industriale” deve essere approvato (ovvero oggi mercoledì 6 marzo)?!
Un analista maligno potrebbe pensare che l’Amministratore Delegato faccia dapprima “odorare” il piano (si veda il generico documento del 14 febbraio), per poi “stordire” i consiglieri, sommergendoli di carte (quasi 600 pagine da metabolizzare in meno di 48 ore?!). Qui siamo alla… psico-politica.
I 5 allegati del “piano industriale” sono così intitolati: “Progetto Editoriale” (che riguarda soprattutto l’offerta televisiva); “Progetto News” (che riguarda anche la prospettiva della controversa “newsroom”); “Progetto per le Minoranze Linguistiche” (questione relativamente minore); “Progetto del Canale in Inglese” e “Progetto del Canale Istituzionale” (entrambi previsti dal nuovo “contratto di servizio”).
Si dirà che i consiglieri Rai sono “civil servant”, e sono pagati (66mila euro lordi l’anno) per studiare i documenti sulla base dei quali debbono assumere decisioni, ma la domanda resta: con queste modalità e con queste tempistiche, si tratta di una metodica razionale, seria, e trasparente, per un buon governo dell’azienda?!
Passiamo dalla teoria alla pratica: nel cda di questa mattina, Salini chiederà al Consiglio l’approvazione della sua “rivoluzione”, ovvero la riorganizzazione aziendale “per generi”, mettendo “il contenuto al centro” (nei documenti, si legge di “assetto organizzativo content-centric”, di offerta che sia sintonica con i “media-journey” dei fruitori, etc.). Si passa da una logica “verticale” (dominio delle direzioni di rete) ad una logica “orizzontale” (dominio delle direzioni di genere).
Si tratta di un “modello” nuovo per l’Italia, ma non per altri “psb”, dalla Bbc a France Télévisions. Alcuni sostengono peraltro che Boston Consulting Group, che è stata anche consulente Bbc, abbia fatto un “copia & incolla”, ma si tratta di una ovvia malignità.
Va comunque ricordato che il modello organizzativo “per generi” è stato teorizzato in Italia, oltre vent’anni fa, da Renato Parascandolo (già Direttore di Rai Educational): si veda anche il suo intervento su “Articolo21” del 6 febbraio 2019, “Rai: organizzazione per generi. Prende piede il progetto di Articolo 21”.
Analizzando lo scenario europeo a livello comparativo, ci sono in verità forme più evolute di “psb”, come il modello direzionale “per target”…
Dal punto di vista funzionigrammatico, la “rivoluzione” di Salini si traduce nel ruolo centrale di 9 Direzioni: “Intrattenimento Prime Time”; “Intrattenimento Day Time”; “Intrattenimento Culturale”; “Fiction”; “Cinema e Serie tv”; “Documentari”; “Ragazzi”; “Format” (denominata forse meglio “New Formats”); “Approfondimento Informativo”. Non entriamo nel merito dei dubbi semantici (e ideologici) su un “naming” come “Intrattenimento Cultura” (perché non “Cultura” tout-cout, di grazia?!), e segnaliamo che “Approfondimento informativo” (che è stata introdotta dopo il Cda del 14 febbraio) sarebbe la direzione che coordina tutti i “talk-show”.
Ognuna di queste Direzioni – che dipenderanno dall’Ad ovvero da un “Direttore Generi” (vedi infra) – sarà titolare di uno specifico budget, mentre le Reti finiranno per avere un ruolo evidentemente subordinato, più legato alla definizione dei palinsesti ed alla gestione dell’audience target assegnata.
L’ipotesi iniziale di una “newsroom” unica sarebbe stata accantonata, ovvero dilazionata nella sua evoluzione nel corso del tempo (in effetti, nel “piano industriale” andrebbe a regime soltanto nel 2023), volendo così mantenere l’autonomia editoriale-politica dei Telegiornali, e cercando di evitare il rischio di una riduzione del pluralismo (come hanno lamentato lo stesso Presidente ed il consigliere Giampaolo Rossi, “in quota” Fratelli d’Italia).
In una prima fase, si procederà all’accorpamento delle testate Tgr (650 giornalisti circa), Rainews24, Televideo e Rainews.it (190 circa), in una redazione unica (che sarebbe formata complessivamente da circa 840 giornalisti), cui farebbe capo anche il nuovo portale web con accesso unico, ovvero si andrebbe a costituire una Testata Multipiattaforma; il secondo step, sarebbe costituito dalla creazione di una sorta di servizio orizzontale (sempre in capo alla “newsroom” di cui sopra) su “notizie fattuali non rilevanti” (ovvero quelle notizie cioè che non richiedono un racconto plurale, legato quindi alle linee editoriali dei 3 Tg). La Testata Multipiattaforma sarebbe prodromica alla Newsroom Unificata.
Nel piano in votazione non viene delineato il nuovo modello organizzativo della “corporate” cioè la parte dell’azienda Rai che non si occupa di “prodotto”, ma riguarda funzioni trasversali, come gli Affari Legali, la Comunicazione, le Risorse Umane ed altre.
Alle dipendenze dell’Amministratore Delegato, ci saranno 5 Direttori di “prima linea”: il Direttore “Generi” ovvero Coordinatore Contenuto (che coordina le 9 Direzioni di Contenuti); il Direttore “Distribuzione” (che coordina le Reti e la programmazione complessiva nelle varie piattaforme); il Direttore “Marketing” (che avrebbe la “cabina di regia” dell’insieme dei dati che informano tutta l’azienda, allineando “Generi” e “Distribuzione”, con un ruolo delicato e strategico); il Direttore “Produzione” (che segue i budget); il Direttore “Risorse Artistiche e Televisive” (preposto anche alla stesura dei contratti con gli artisti). Anche in questo caso, sarebbe stata definita una mediazione tra consiglieri: questa riorganizzazione non sarebbe immediata, ma partirebbe dall’anno prossimo.
Naturale verrebbe da pensare che una simile così complessa ri-organizzazione possa, o forse debba, prevedere anche la figura di un Direttore Generale, che la legge di riforma voluta da Matteo Renzi (la n. 220 del dicembre 2015) ha sostanzialmente fatto assorbile nella figura dell’Amministratore Delegato. E qui si entra nelle sabbie mobili della politica, intesa come lottizzazione partitica e spartizione del potere.
Cerchiamo di sintetizzare: il mal di pancia tra Marcello Foa Presidente leghista e Fabrizio Salini Amministratore Delegato grillino sarebbe determinato dall’eccesso di potere del secondo (“eccesso” peraltro voluto dalla legge Renzi, che ha modificato la “governance”), e quindi, anche alla luce dello scenario politico complessivo, si cercherebbe un compromesso, “inventando” la figura del Direttore Generale, che verrebbe ovviamente affidata – giustappunto per riequilibrare – ad un manager “in quota leghista”. Una logica politica che prevale sulla logica aziendale.
Le previsioni sono facili: se non emerge nella mattinata di mercoledì uno scontro tra Presidente ed Ad, il Consiglio di Amministrazione approverà a larga maggioranza il “piano industriale”, con il prevedibile voto contrario di Rita Borioni (“in quota” Partito Democratico), che lo ha preannunciato in varie occasioni, e finanche di Riccardo Laganà (il consigliere eletto dai dipendenti, che è certamente posizionato a sinistra, ma non è classificabile esattamente “in quota” partitica), che martedì sera ha dichiarato la propria propensione al voto contrario, a causa della mancata risposta ai manifestati dubbi sulla trasparenza e sui criteri di nomina delle figure apicali. In sostanza, si può scommettere su un risultato netto: 5 (pro) a 2 (contro). Beatrice Coletti (“in quota” M5S) ha manifestato pubblicamente sostegno al piano, così come Igor Di Biasio (“in quota” Lega) e Giampaolo Rossi (“in quota” Fdi).
Alcuni appassionati di “politologia” (ovvero di governo – alto e basso – della “res publica”) sostengono che, se dovesse incrinarsi l’alleanza tra Lega e M5S (vedi alla voce “Tav”?!), la maggioranza attuale del Cda Rai andrebbe presto a farsi benedire, con conseguenze catastrofiche sugli assetti interni. Presidente ed Amministratore Delegato dovrebbero confrontarsi con maggioranze variabili (considerando 2 consiglieri grillini, 2 leghisti, 1 di Fdi, 1 del Pd, 1 espresso dai dipendenti): il caos. L’azienda sarebbe ingovernabile, se ogni consigliere dovesse agire sintonizzandosi con gli umori del proprio “partito di riferimento”, in caso di crisi di governo…
Rischio di dilazioni temporali?!
Latente, ma verosimilmente modesto, perché non darebbe alla coppia Marcello Foa & Fabrizio Salini un’immagine di governo “decisionista” dell’azienda. Peraltro, formalmente il 7 marzo 2019 (giovedì) scade la proroga semestrale concessa del Mise a Viale Mazzini, rispetto a quanto era previsto nel “contratto di servizio, cioè il settembre 2018. La proroga è stata concessa perché, effettivamente, il nuovo organismo di gestione su era insediato in estate e, oggettivamente, non avrebbe potuto rispettare l’iniziale scadenza dei 6 mesi fissata a marzo 2018, con la stipula del rinnovato “contratto di servizio” Stato-Rai. Va segnalato che è anche vero che si tratta di un termine temporale che i giuristi definiscono “ordinatorio”, ovvero non imperativo, e quindi, non essendo prevista alcuna sanzione, rimandare l’approvazione di una settimana o due non determinerebbe alcuna conseguenza concreta (per come funziona – male – il nostro Paese).
Si può immaginare comunque che “gioco” pazzesco viene a determinare, nelle sue conseguenze empiriche, ovvero nelle nomine, il nuovo assetto funzionigrammatico di Viale Mazzini: una partita surreale è imminente, con un rischio di stallo a singhiozzo, tra un cda e l’altro…
Alcune osservazioni critiche: da quanto ci è dato sapere, il “piano industriale” Rai – giustappunto perché “industriale”, e questo è il “vulnus” primario – non dedica particolare attenzione ad alcune innovazioni introdotte nel nuovo “contratto di servizio”, che ha inteso accentuare la dimensione sociale di Viale Mazzini: dall’esigenza di introdurre un Ufficio Studi (smantellato anni fa in nome di una logica soltanto “marketing oriented” peraltro male intesa)… all’esigenza di strutturare un sistema di misurazione dell’impatto sociale del “psb” Rai (anche attraverso un “indice di coesione sociale”)… all’esigenza di un “bilancio sociale” che sia reale e non fittizio (come avvenuto finora, nel silenzio dei più: incredibilmente: abbiamo denunciato che è stato elaborato un “bilancio sociale” semi-clandestino, cui Rai non ha assegnato alcuna reale pubblicità).
Ci domandiamo a che punto di analisi e di discussione sono arrivate le delegazioni Rai e Mise, guidate rispettivamente dal giornalista Fabrizio Ferragni (Direttore delle Relazioni Istituzionali Rai) e dall’avvocato Marco Bellezza (nella sua duplice veste di Consigliere giuridico del Vice Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Di Maio ed al contempo Consigliere giuridico per le Comunicazioni e l’Innovazione Digitale del Ministro dello Sviluppo Economico ovvero sempre Di Maio): hanno avuto un ruolo significativo nella predisposizione di un “piano industriale” che sia realmente coerente con le previsioni del “contratto di servizio”?!
E l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che ne pensa?! Finora, cioè nelle ultime settimane, si è limitata a bacchettare Rai per deficit di rispetto del pluralismo informativo.
La Rai non può essere governata soltanto sulla base di una logica economica (che finisce per essere economicista): è anzitutto una impresa pubblica che deve lavorare per proporre una visione plurale ma coesa della società.
Si ricorda che comunque, anche rispetto al “contratto di servizio”, si è assistito nei mesi scorsi ad un silenzio assordante di partiti e sindacati, ed anche della società civile (se non per un intervento – uno – esclusivamente da parte del Forum del Terzo Settore e di Csvnet, che hanno saggiamente sostenuto che “l’azienda pubblica è centrale per la promozione dei principi di solidarietà”). Non un convegno uno, non una occasione una di dibattito sui futuri possibili della Rai. Incredibile, ma vero.
Un laboratorio di discussione – rara avis – è stato promosso mesi fa dall’ex dirigente Rai Patrizio Rossano e dal collega giornalista Marco Mele, e le prime riunioni sono state ospitate in Agcom: si tratta del gruppo di lavoro “Visioni2030”, che sta lavorando ad un documento di stimolazione del dibattito politico.
Rimarcando che non vi è stato alcun pubblico dibattito sul “piano industriale” (anche perché è stato trattato con una segretezza innecessaria), qui si vuole contestare la primazia dell’“economico” sul “sociale”, in un’azienda come la Rai.
Quel che qui poniamo è un quesito profondo e strategico: perché, anche in seno al Cda, tanta attenzione alla strategia industriale, a discapito di quella strategia sociale (ovvero culturale) che deve (dovrebbe) essere – alla fin fine – la funzione essenziale di un “public service media”?!
Siamo convinti che la dimensione socio-culturale della Rai dovrebbe prevalere su quella economica: ovvero, il “piano industriale” di Viale Mazzini dovrebbe essere modellato su un “piano sociale”, cioè su un modello culturale complessivo di “servizio pubblico”.
La Rai può certamente competere con i “broadcaster” privati (e con la crescente offerta non lineare degli “over-the-top”), ma potrà prevalere soltanto se riuscirà a fornire una immagine ed una sostanza “altre”.
La Rai deve rimarcare la propria diversità, come fonte autorevole di notizie (soprattutto in epoca di ondate di “fake news”) e come moltiplicatore di una identità nazionale plurale ma coesa (senza seguire sempre la logica della televisione commerciale, come purtroppo ancora tende a fare in parte prevalente del proprio palinsesto).
Nelle decine di pagine del documento sottoposto al Cda del 14 febbraio così come nelle centinaia di pagine predisposte per il Cda del 6 marzo, purtroppo si sente soprattutto uno spirito “industriale” e non uno spirito “sociale”: questo è il vulnus centrale del governo attuale della Rai.
Qui non si tratta di teorizzare gli effetti della “disrumption”, o di studiare strategie aziendali e di marketing per contrastare la disintermediazione e gli effetti di una fruizione audiovisiva sempre più non-lineare (e finanche mobile): qui si tratta soprattutto di ri-affermare il senso, il ruolo, il “brand” Rai, nella sua funzione di autorevole agenzia nazionale di alfabetizzazione digitale, di produzione culturale plurale e di stimolazione artistico-creativa.
“Autorevolezza” è una delle parole-chiave che dovrebbe caratterizzare (nell’informazione anzitutto ma anche nell’intrattenimento) una nuova Rai, accompagnata da concetti-chiave come “difesa delle diversità” (delle infinite diversità che rappresentano la maggiore ricchezza del nostro Paese) ovvero proposizione di una cultura plurale (e finanche dissonante), che stimoli una società libera, democratica, partecipante, creativa, coesa.
Fino a quando la Rai si limiterà a scimmiottare le emittenti commerciali, la sua deriva continuerà senza speranza (ed a poco serviranno i “super-consulenti” di strategia e marketing, tecnici asserviti alle logiche del mercato): il suo spettatore non è un consumatore, ma un cittadino.
Non sarebbe più intelligente, strategico, civile, allocare budget significativi non (o comunque non soltanto) in consulenze esterne di tipo “aziendalistico” (di dubbia necessità e di controversa utilità), ma piuttosto verso forme di interazione con l’utente, ovvero con la cittadinanza?! Per esempio, creando un organismo di consultazione continua, e ben strutturata, della realtà sociale: una sorta di “Garante del Cittadino Telespettatore”, che rappresenti, attraverso una Consulta, le voci plurali della società civile, del terzo settore, del volontariato, dell’accademia, del territorio… Si deve andare ben oltre la Direzione Responsabilità Sociale della Rai (che corre il rischio di divenire una foglia di fico), recuperando l’esperienza storica del Segretariato Sociale Rai, e rilanciandola alla grande in chiave “digital”. Questa sì sarebbe una vera innovazione, degna di un governo che si proclama del “cambiamento”.
Si dovrebbe poi certamente ragionare se ha senso mantenere in vita 21 canali televisivi (15 in sd e 6 in hd) e 12 canali radiofonici, eccetera, o se invece non sia opportuno ridurre il “perimetro” dell’intervento Rai concentrando le proprie attività e risorse sulle funzioni più prettamente sociali. Nel documento sottoposto al Cda del 14 febbraio, per esempio, si prospettava la chiusura dei canali RaiMovie e RaiPremium, ma al contempo la creazione di un nuovo canale (!) indirizzato al target femminile: francamente, ci domandiamo sulla base di quali analisi Bcg abbia elaborato simili proposte…
Si dovrebbe ragionare sull’importanza di produrre sempre più contenuto creativo nazionale di qualità, che differenzi la Rai rispetto ai “competitor” tradizionali ed agli “ott”…
Si dovrebbe ragionare su una alleanza con altre “agenzie” pubbliche, in primis il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) ed il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac), ma ci sembra che questa prospettiva sia stata ignorata (completamente) dal “piano industriale” in gestazione: perché?!
Conclusivamente (passando dai massimi sistemi ai minimi), finché i vertici della Rai non vivranno un senso di nausea nell’osservare passivamente (e lasciare in vita) trasmissioni come “L’eredità” – indegne di una televisione pubblica – significherà che nessun reale “cambiamento” sarà stato realmente messo in atto.
* Presidente Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult