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San Ferdinando, lettera aperta dall’Inferno

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Francesco Donnici 

Viene da chiedersi se nei primi giorni di Primavera anche giù all’Inferno gli alberi stiano almeno provando a rinverdire ed i prati a rifiorire, oppure se anche l’ultima foglia ormai secca, ancor prima di attecchire al suolo, sia stata ridotta in cenere. Viene da chiederselo, se non altro, per capire se almeno la natura riesca ad attrezzarsi per dare un po’ di sollievo alle pene di centinaia di anime che, col passare dei giorni, appaiono dimenticate.

Lo scorso venerdì si è consumata un’altra tragedia sul tristemente celebre palcoscenico di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, dove ha perso la vita Sylla Nuamé, giovane di 32 anni originario del Senegal che si aggiunge all’elenco delle vittime del fuoco dopo le recenti scomparse di Moussa Ba (29 anni) e Suruwa Jaithe (18 anni). Ultime in ordine temporale, ma non certo le uniche.

La particolarità di questo episodio è il suo verificarsi a pochi giorni di distanza dalle recenti operazioni di sgombero della “baraccopoli della vergogna”, proprio in quella tendopoli allestita dalla prefettura per evitare ulteriori tragedie, ma qualcosa non ha funzionato.

La Procura locale ha disposto una perizia “per accertare tutte le responsabilità”. In questo senso bisognerebbe interrogarsi anche sul diffuso livello di corresponsabilità di una società civile e di uno Stato concentrato più sul piano emergenziale-propagandistico che non su un intervento costruttivo e lungimirante per quella zona e, soprattutto, per quelle persone.

Le operazioni di sgombero di poco più di due settimane fa, erano state presentate come un nuovo punto di partenza; come un’operazione necessaria – anche nella loro immediatezza –  far sì che la storia potesse concludersi con un epilogo diverso dove tutti avrebbero esultato nel nome dell’ordine, della sicurezza e – perché no? – della legalità. Eppure, come spesso accade quando la soluzione è quella di non trovare una vera soluzione, l’epilogo pare essere rimasto invariato.

La zona tra San Ferdinando e Rosarno era nuovamente divenuta oggetto dell’attenzione pubblica dopo la morte di Soumaila Sacko, sindacalista dell’Usb mobilitatosi in prima persona per far fronte all’indigenza delle condizioni di vita alle quali quasi un migliaio di persone era stato relegato.

Poi il fuoco e nuovi volti iniziano ad essere accostati ai loro nomi proprio nel momento in cui un nome non serve più. Il prefetto Michele Di Bari coordina le operazioni di sgombero fortemente volute dal Ministero dell’Interno, rese ancor più necessarie da quelle drammatiche conseguenze.

Per offrire un riparo ai migranti sfollati dalla baraccopoli viene allestita una tendopoli non molto distante con una capienza di circa 400 posti. Altre centinaia di persone prenderanno i pullman per essere trasferiti nei Cas più vicini.

Nottetempo inizia a circolare la notizia dell’imminente sgombero e molte delle anime dimenticate di San Ferdinando iniziano a scappare via diperdensodi per le campagne della piana.

All’arrivo delle ruspe e dei mezzi antisommossa sono rimaste poco meno di mille persone. Nella tendopoli non se ne spostano 400, ma circa il doppio. In molti si spendono oltre il plauso allo sgombero per chiedere una soluzione più umana, ma le voci dal girone infernale di San Ferdinando ricominciano ad udirsi distanti.

Il fuoco porta via un’altra giovane vita nella dannazione di chi, a poco a poco, si assuefà ad un destino che sembra immutabile. I profili social ufficiali del Ministro dell’Interno si dividono tra una miriade di post dedicati alla tentata strage da parte del conducente del pullman “senegalese con cittadinanza italiana” e le elezioni regionali in Basilicata. Non una parola si troverà su un giovane morto anche sotto la sua responsabilità, in quegli alloggi di ventura allestiti dalla prefettura. “Nella vecchia baraccopoli le conseguenze sarebbero state molto più gravi”, l’unica dichiarazione.

Conseguenze, forse, prevedibili anche da lui. Ciò che fa più male è questo minimizzare; questo soffermarsi sull’entità di conseguenze ineludibili, quasi come se l’intervento in quelle zone non fosse servito a ridare dignità alle persone o ad evitare il danno, quanto più a limitarlo. Perché la volontà di evitare un danno ed il rispetto imprescindibile della dignità della persona sono due componenti che troppo spesso vengono presentate in maniera disgiunta tra loro, ma non lo possono essere: l’attenzione alla vita delle persone salva la vita stessa. Ma oggi non sentiamo più parlare di uomini, in terra come in mare, oggi sentiamo parlare di numeri e statistiche.

Viene allora da fare un passo indietro, a questa estate quando a Riace più di una persona ci disse: “se mi mandano via da qui, a San Ferdinando o a Crotone, tanto vale morire prima”.

La mente torna a Becky Moses, altra ragazza morta tra le fiamme dopo aver ricevuto il diniego della richiesta d’asilo che la aveva costretta a lasciare Riace il 3 gennaio 2018.

Viene da ripensare ai volti della nuova Primavera dalla quale era rifiorito il “paese dei bronzi”. Poi le difficoltà, i problemi giudiziari di Mimmo Lucano, un diffuso ed a tratti immotivato ostracismo. Fino alla chiusura di una realtà da alcuni definita “scomoda” e da altri frettolosamente liquidata come “business dell’immigrazione” in un gioco al massacro dove tante persone che avevano finalmente riscoperto la pace venivano scaraventate giù, in una voragine diretta verso gli inferi.

Oggi, con l’amarezza del senno di poi prevedibile, si può continuare ad affermare che quel modello fondato – prima ancora che su un’idea politica di integrazione – su un progetto di riqualificazione del centro storico del paese per far fronte ad emergenze simili a quelle di San Ferdinando e dintorni, sarebbe potuto essere un esempio da riprodurre per salvare delle vite e non certo, com’è stato, uno scalpo da esibire.

Quante anime senza nome ancora dovranno continuare ad ardere in attesa della redenzione del “Dio” che alberga tra i viventi?

 

Da liberainformazione


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