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Rai multimediale e nuove professionalità intradisciplinari

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Ha ragione l’AD della Rai Salini nel dire che “la riorganizzazione della Rai per generi è una rivoluzione” perché significherà smontare e ricostruire un apparato vecchio di oltre quarant’anni, rabberciato di tanto in tanto, che si presenta come una stratificazione geologica in cui i quattro modelli organizzativi canonici (gerarchico, divisionale, a matrice, funzionale) si sovrappongono gli uni agli altri in maniera del tutto incoerente. Che l’organizzazione per reti e testate autarchiche e in concorrenza tra loro, fosse del tutto anacronistica e favorisse l’esternalizzazione non solo della produzione, ma anche dell’ideazione, era chiaro sin dalla metà degli anni ottanta quando, caduto il monopolio, il servizio pubblico avrebbe dovuto attrezzarsi per sostenere compatta la sfida con la Tv commerciale. Questa inadeguatezza delle reti è apparsa ancora più evidente con la nascita di Internet e della Tv satellitare, tant’è che non sapendo come assimilare i nuovi media nelle Strutture di programmazione, si finì per affidarne la produzione di contenuti a Rai Net e Rai Sat, due società bonsai destinate a svolgere una mission para commerciale perché finanziate solo in minima parte dal canone.

Non c’era bisogno di esperti in ingegneria aziendale per comprendere che questa struttura verticale, composta di monadi non comunicanti, era una zavorra micidiale per il servizio pubblico che ne avrebbe precluso l’accesso alla multimedialità. Allora, di fronte a questa evidenza, perché nessuno dei vertici aziendali degli ultimi vent’anni ha osato porre mano a una stortura così lampante? Semplicemente perché nessuno degli stakeholder, chi a torto chi con qualche buona ragione, voleva correre il rischio di veder ridimensionato il proprio peso.

Lo spostamento del baricentro dalle Direzioni di rete a quelle di genere sconvolgerà l’organigramma aziendale; ma la rivoluzione vera e propria riguarderà i profili professionali di dipendenti e dirigenti, il modo di ideare, progettare e produrre. L’attuale organizzazione per media richiede competenze necessariamente limitate al linguaggio e ai format del medium per cui si lavora (radio, Tv, web, ecc.); al contrario, nell’organizzazione per generi le competenze devono essere intermediali perché i programmi, i prodotti e i servizi che si realizzano all’interno di ciascuna factory tematica dovranno essere distribuiti in differenti versioni, su tutte le piattaforme, rispettandone le peculiarità espressive e narrative.

Ragionare secondo la logica intermediale in un mondo che fino a ieri è stato monomediale, è come imparare a usare il computer a cinquant’anni. Paradossalmente, quanto più procedure e modelli organizzativi appaiono superati, tanto più tenace è la resistenza al cambiamento anche quando non sono in questione le catene gerarchiche e i rapporti di potere. Pertanto, non ci sarà da stupirsi se emergeranno resistenze psicologiche del tipo Bartlebly lo scrivano. Chi ha fatto televisione generalista per tanti anni farà fatica a inoltrarsi nel linguaggio e nelle tecnologie dei media digitali. Perché dovrebbe abbando­nare qualcosa che conosce e sa fare, per qualcosa che ignora? Dovrà essere motivato a farlo, e questo può avvenire solo se verrà coinvolto attivamente, insieme a tutti i dipendenti e i dirigenti nel processo di riorganizzazione e di aggiornamento professionale.

Lo smantellamento delle attuali “monadi” monome­diali dovrà accompagnarsi a una radicale ridefinizione dell’ideazione e progettazione dei programmi, dei modelli produttivi, delle procedure burocratiche e dell’uso delle tecnologie.

In particolare, le figure professionali dovrebbero diventare poliedriche, cioè integrare la tradizionale predisposizione all’interdisciplinarità, tipica del lavoro nei mass media, con una certa dose di intradisciplinarità, un neologismo che ho coniato nel 2000 (La televisione oltre la televisione, Ed. Riuniti) proprio per indicare la necessità di arricchire le proprie competenze monomediali con i rudimenti di linguaggi e mezzi espressivi di altri media e piattaforme.

Il programma-prodotto di una Direzione di genere è modulare e polivalente perché deve dare luogo a diverse versioni differenti per linguaggio, durata, format, e utenti cui sono destinate. Pertanto, la versione televisiva per la messa in onda sarà solo una delle tante versioni dell’opera intermediale, perché quelle ulteriori non saranno semplici repliche (come accade ora per Rai Play), né un banale adattamento, ma altrettanti prodotti originali; quindi, per realizzare le versioni diverse da quella televisiva si dovrà attingere di nuovo alla materia prima, al girato, che sarà lavorato da chi, operando nella stessa factory tematica, dovrà ideare e realizzare prodotti per le nuove piattaforme. Nella Rai attuale le strutture generaliste producono per un solo medium, a utilità immediata ed esclusivamente per la messa in onda; al contrario, nell’azienda organizzata per generi, le strutture tematiche producono per tutti i media, a utilità ripetuta e per il mercato internazionale; da qui la necessità di un aggiornamento professionale in senso culturale e intradisciplinare.

Weber definiva la professionalità come l’“azione razionale rispetto allo scopo”: se cambia lo scopo, i profili professionali precedenti – se non saranno arricchiti da nuove competenze e, soprattutto da una nuova forma mentis – si riveleranno il principale ostacolo al cambiamento. Oltretutto, questa è una buona occasione per abbandonare definitivamente la lunga deriva tayloristica che ha prodotto l’impoverimento dei profili professionali e una diffusa demotivazione a tutti i livelli, non solo tra gli addetti alla produzione. L’auspicio, dunque, è che nel piano industriale della Rai organizzata per generi sia previsto un intelligente e vasto piano di aggiornamento professionale da elaborare e mettere in pratica coinvolgendo dipendenti e dirigenti, armandosi, se possibile, d’im­magi­nazione burocratica, un ossimoro, senza il quale, tuttavia, ogni disegno di cambiamento è destinato a fallire.


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