I giorni tra il 19 e il 20 marzo hanno assunto un carattere luttuoso nella storia del nostro Paese, in particolare per quanto concerne la lotta alle mafie e la difesa di una certa idea di giornalismo. Ricorrono, infatti, tre avversari significativi: l’assassinio di don Peppe Diana, avvenuto a Casal di Principe in seguito alla sua strenua battaglia contro la camorra; l’assassinio, a Mogadiscio, di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i quali stavano indagando su una serie di traffici illeciti fra l’Italia e la Somalia, e l’assassinio, il 20 marzo di quindici anni prima, di Carmine Pecorelli, direttore di “OP” e, a quanto pare, in possesso di documenti scottanti per il potere di allora, a cominciare dal Memoriale di Aldo Moro, poi ritrovato, dodici anni dopo, nel covo brigatista di via Montenevoso a Milano.
Due giorni infausti, dunque, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ricordo ancora che uno degli articoli più significativi che abbia avuto modo di leggere sulla tragedia di don Diana lo scrisse cinque anni fa Santo Della Volpe, mettendo in evidenza la concomitanza fra il dramma di questo prete di frontiera e due nostri colleghi, Ilaria e Miran per l’appunto, rammentando il suo sgomento, il clima e le atmosfere che si respiravano in quei giorni d’attesa e di sospensione politica in quel lembo di Campania che dodici anni dopo un coraggioso scrittore di quella terra avrebbe illuminato a giorno ma che, fino a quel momento, era stato quasi ignorato dalla nostra informazione.
Don Diana come don Puglisi pochi mesi prima a Brancaccio, nella Palermo degli attentati e delle stragi. Don Diana, assassinato perché dava fastidio, cercando di favorire il riscatto dei giovani e di una popolazione che si era ormai rassegnata all’irrilevanza e ai soprusi.
20 marzo 1994, una domenica. Il coraggio di Ilaria e Miran non ha avuto giustizia. O meglio: non ancora, perché noi non ci rassegniamo all’archiviazione del caso. Per un senso di giustizia, per rispetto, perché lo dobbiamo ai genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana Alpi, che purtroppo non ci sono più, perché un innocente, Hasci Omar Hassan, ha pagato per sedici anni per un delitto che non aveva commesso e perché non ci interessano tanto gli esecutori materiali, che ovviamente consideriamo esseri spregevoli, quanto i mandanti, gli avvelenatori della nostra democrazia, i poteri occulti di ieri, di oggi e di sempre, i farabutti che hanno contrastato e spesso ostacolato con successo ogni svolta in senso progressista della nostra società.
Continueremo a lottare per portare avanti l’esempio, ma soprattutto le battaglie, di Ilaria e Miran, per non arrenderci a questo modello iniquo di società, per non fornire l’impressione di aver lasciato perdere, di aver accettato il desiderio di oblio che si avverte da più parti, di essere diventati, a nostra volta, cinici, disincantati, disillusi.
E continueremo a batterci al fianco dei tanti don Diana di oggi perché la lotta contro tutte le mafie non è affatto scissa dalla lotta per la libertà d’informazione e, anzi, è accomunata ad essa dal desiderio dei diretti interessati di vivere nell’ombra, di avere una stampa corriva, taciturna, disposta ad autocensurarsi e a voltarsi dall’altra parte, ossia inutile ai fini della crescita culturale e civile del Paese.
Infine, ci batteremo affinché emerga la verità storica anche per quanto concerne il delitto Pecorelli, in quanto svolgeva una funzione essenziale nell’Italia di quegli anni, sfiancata dalla P2, dalle trame oscure, dalle bombe, dalla violenza cieca di desra e di sinistra, dalla barbarie mafiosa che eliminò Ambrosoli, Terranova, Dalla Chiesa, Chinnici e molti altri ancora, dalle collusioni e dalle connivenze indicibili di uno Stato screditato e in preda a un’inqualificabile isteria.
Lotteremo ancora e sempre perché questa è la nostra natura, perché pensiamo che non se ne possa fare a meno, perché è giusto, doveroso, indispensabile.
E terremo alta la bandiera di Ilaria e Miran: non in maniera celebrativa ma portando avanti le loro inchieste e la loro visione del mondo, quella in cui siamo cresciuti e ci siamo formati, l’unica opportunità di riscatto possibile e auspicabile in un mondo che sta, oggettivamente, deragliando.
Quattro anniversari, quattro addii e un pensiero affettuoso a Santo che, da lassù, so che ci guarda, ci legge e continua a lottare insieme a noi.
P.S. Oltre a Santo, dedico questo articolo alla memoria di Mario Francese, assassinato dalla mafia il 26 gennaio di quarant’anni fa, e di Marco Lucchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, caduti a Mostar il 28 gennaio 1994 a causa dell’esplosione di una granata. Stavano testimoniando le atrocità delle guerre balcaniche: conflitti devastanti che si svolgevano a poche centinaia di chilometri da noi. Nonostante siano trascorsi tanti anni, non li abbiamo dimenticati e non li dimenticheremo mai.
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